Aleppo e i fantasmi della guerra fredda
Fino a oggi, dall’inizio di quest’anno, sono 374 i profughi morti in mare e, secondo l’Organizzazione Mondiale per la Migrazione, quelli che nello stesso periodo sono riusciti ad arrivare in Grecia sono 69 mila, di cui più o meno la metà siriani. I numeri – che sono vite umane e continuamente aumentano – non ci consentono di fare sconti sulla portata di quello che sta succedendo, sul carattere dirompente degli scombussolamenti storici e, soprattutto, delle lotte di potere a tutti i livelli e in tutte le direzioni che determinano la dinamica dei fatti. Siamo di fronte all’esaurimento definitivo di un assetto del mondo – lo abbiamo detto più volte – ma anche di fronte all’inesistenza di qualsiasi prospettiva ravvicinata e credibile di soluzione dei problemi. Una sorta di sistema mondo alla deriva, per un numero infinto di cause: dalla geopolitica all’economia, dai disastri ambientali alla crisi della democrazia e delle democrazie, dalla Cina che sballa alla tecnologia sempre più sotto controllo di cerchie ristrette. E, soprattutto, per gli effetti che tutto questo comporta su un numero crescente di vite umane, su intere popolazioni, su centinaia di migliaia, milioni di persone che ne vengono travolte. Non viviamo una transizione ma una permanenza caotica di disordine globale.
Dirompenti oggi appaiono soprattutto gli effetti dell’implosione dei vecchi assetti statuali in Medioriente. Il Califfato se ne nutre, trae da esso la sua ragione d’essere e la forma tentacolare e multidirezionale del suo progetto. I bombardamenti ne restringono l’espansione là dove si era radicata ma la crisi globale gli offre nuovi sbocchi.
Aleppo, città siriana che rovina sotto i bombardamenti di Vladimir Putin, e la cancelliera Merkel che in questi giorni discetta ad Ankara con il presidente Erdogan e il premier Davutoglu sulle vittime di Aleppo, mettono plasticamente in scena da una parte la violenza convulsiva del disordine globale, dall’altra le trame oscure delle relazioni tra i governi, le bugie e gli inganni del potere, i giochi contrapposti e le diplomatiche furbizie, di cui la fase che viviamo si nutre. Angela Merkel ha oggi un problema gigantesco da risolvere. Si è dovuta pentire delle straordinarie aperture – da quella leader che forse potrebbe essere se il tempo che viviamo glielo consentisse – fatte in agosto ai profughi siriani. Così ha fatto un passo indietro. Ha dovuto infatti fronteggiare i problemi interni – e di rapporto con una serie di assai poco democratici – eufemisticamente parlando – governi limitrofi – che la sua apertura aveva provocato. E per fronteggiare di conseguenza anche le continue tensioni che oggi l’arrivo di profughi e migranti provoca nell’area Schengen, mettendone a rischio la sopravvivenza. Per questo ad Ankara la Cancelliera ha recitato la parte che più le conviene in questo momento se vuole trattare a proprio vantaggio con la Turchia la questione profughi. Perché la Turchia fermi i profughi, li accolga in qualche modo o trovi qualche soluzione. Così la Cancelliera ha espresso orrore per i bombardamenti russi su Aleppo, ha espresso il suo accordo per un coinvolgimento della Nato nella gestione dei profughi ed è stata al massimo diplomatica con i rappresentanti del potere turco, dimenticando non solo quanto le pesanti responsabilità di Erdogan rispetto al caos siriano e alle scorribande jihadiste di ogni tipo sul territorio turco abbiano facilitato l’insediamento e il consolidamento del Califfato, ma quanto la repressione del governo turco operi quotidianamente nei confronti dei curdi. I curdi siriani sono oggi per la Turchia la merce di scambio di ogni trattativa e accordo con l’Europa sulla questione dei profughi. Sia i curdi della Turchia, oppositori interni e nemici, sia quelli della Siria, che si oppongono strenuamente al Califfato e Erdogan li considera solo nemici da far fuori. La questione curda, di cui nessuno parla, e dovrebbe essere al centro di ogni nuova idea di risoluzione dei problemi.
Dopo i miliardi dati alla Turchia dall’Ue, c’è chi pensa anche a una zona cuscinetto da creare sul confine turco siriano e forse la Cancelliera è attratta dall’idea. Siamo a questo punto. La Turchia non potrà che beneficiarne nella sua strategica intenzione di avere gioco libero in Siria e spezzare le linee curde siriane di contrasto all’Isis.
La dinamica della crisi mediorientale non si ferma agli attori tradizionali, agli interessi e alla manovre occidentali, ai sanguinosi contrasti politico-ideologici che attraversano l’Islam, alla nuova evidenza del ruolo dell’Iran. Oggi quello che succede là mostra che la posta in gioco è andata oltre i perimetri fino a ieri dominanti. Il deciso protagonismo di Vladimir Putin è infatti il dato nuovo che rimescola il gioco. Protagonismo di primo pano in quella che Putin vorrebbe vantare come azione militare di contrasto al Califfato nero ed è invece tutt’altra strategia. Più che a colpire l’Isis Putin mira infatti a rimettere in piedi il regime di Assad, suo alleato da sempre. Cinicamente e senza tanti infingimenti, come dimostrano i bombardamenti su Aleppo, che non è sotto controllo dell’Isis ma in gran parte degli oppositori di Assad. Di ogni erba un fascio, insomma. L’’intervento militare americano – droni, forze speciali, aviazione – in Iraq e Siria contro le forze dello Stato islamico non solo ha colpito il Califfato, riducendo il numero di militanti in azione e proiettando molti miliziani jihadisti nell’impresa di creare nuove basi in Libia, forse in Algeria, forse Marocco, come molti temono, ma ha anche facilitato le strategie competitive di Mosca. Putin infatti sta approfittando del caos nonché dell’assenza di un quadro di rapporti internazionali, che costringa a cercare soluzioni concordate, per rafforzare la sua presenza nell’unico paese della regione rimasto nell’orbita russa. La Siria di Assad, appunto. Sembrano aleggiare i fantasmi della guerra fredda, della fine dell’ordine del due di quella stagione? Anche questo rientra, per altro non da oggi, nello stato delle cose che viviamo.
Anche perché a troppe cose non sono state date risposte all’altezza dei tempi cambiati, oppure semplicemente sbagliate. Il ruolo della Nato, per esempio, e soprattutto la sua proiezione verso est, per esempio. E oggi di nuovo la Nato è evocata e invocata per aiutare l’Europa e l’Occidente a districarsi da tutti i guai. C’è di tutto nella fase che viviamo, a cominciare dalle conseguenze del modo di cortissimo respiro con cui l’Unione europea si misurò col post 1989.
Qualcuno oggi, tanto per restare in tema, ipotizza una nuova conferenza di Yalta per ridisegnare le zone d’influenza delle grandi potenze, includendo anche la Cina e l’India. Ma pensata e detta così una tale idea non tranquillizza affatto. Potrebbe essere o solo una boutade o l’ennesimo disastro.
Intanto stiamo ancora aspettando che a Tripoli si insedi il nuovo governo di unità nazionale. Per fare che cosa – l’Italia – non è ancora chiaro.