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Lunedì, 6 ottobre 2014

Art. 18: i luoghi comuni sulla norma che coniuga lavoro e libertà

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Altro che tabù! Dell’art. 18 St. lav. si parla e si straparla. In Italia e in Europa. Per vero, nella stagione dell’eclissi del lavoro dallo spazio pubblico, mettere a tema l’architrave dello statuto protettivo dei lavoratori subordinati in Italia sarebbe anche un bene, se il dibattito non fosse costellato di quelle che Luciano Gallino chiama “idee ricevute”, ossia tesi e teoremi del tutto destituiti di dimostrazione teorica e fondamento empirico, divenuti nel tempo “senso comune” perché non efficacemente contrastati. E i luoghi comuni attorno all’art. 18 davvero si sprecano. Richiamando in rapida sequenza solo i principali, si dice dell’art. 18 che: a) impedisce, sostanzialmente, il licenziamento nelle imprese con più di 15 dipendenti; b) prevede, con la reintegrazione, una forma di tutela che non ha eguali in Europa; c) produce disuguaglianze tra lavoratori iperprotetti (c.d. insiders) e lavoratori sprovvisti di ogni tutela (c.d. outsiders); d) contempla una misura riparatoria largamente ineffettiva, come dimostrerebbero i dati sulle “reintegrazioni” cui si da concretamente corso all’esito dei processi. Sulla base di quest’ultima deduzione, peraltro in aperta contraddizione con tutte le altre, la battaglia a difesa dell’art. 18 sarebbe essenzialmente ideologica o, al limite, soltanto “simbolica”.

Ciascuno di questi quattro argomenti può essere contrastato. Ed è bene che lo sia, senza rinunciare a fornire dimostrazione di ciò che pure suona ovvio a chiunque abbia una pur minima consuetudine con il mondo del lavoro e il suo diritto.

In primo luogo è bene ricordare che l’art. 18 prevede una forma di tutela contro il licenziamento illegittimo e dunque privo di una valida giustificazione soggettiva o oggettiva, mentre sono perfettamente legittimi, in Italia come nel resto d’Europa, tanto i licenziamenti sorretti da motivi legati all’attitudine o alla condotta dei lavoratori, quanto quelli fondati su esigenze organizzative o economiche dell’impresa. In relazione a questi ultimi, per i quali è primariamente invocato il superamento della tutela “forte”, ciò che allontana l’Italia da altri paesi europei è, semmai, un fattore diverso e opposto rispetto a ciò che si denuncia: mentre in Italia ogni modifica organizzativa, purché effettivamente sussistente, autorizza il licenziamento senza alcun costo per l’impresa, in altri ordinamenti quali Spagna, Portogallo, Gran Bretagna e, a partire dal 2004, anche Germania, al lavoratore espulso per ragioni attinenti all’impresa è comunque riconosciuta un’indennità, variabile in ragione dell’anzianità di servizio, in funzione compensativa del pregiudizio subito. Ciò, per esser chiari, anche in caso di licenziamento perfettamente legittimo: il che sarebbe auspicabile e pure ragionevole in un sistema costituzionale nel quale convive, accanto alla libertà d’iniziativa economica (art. 41, co. 1), anche il limite della sua utilità sociale (co. 2), mentre il riconoscimento del diritto al lavoro figura tra i principi fondamentali (art. 4 Cost.)[1].

Venendo al secondo argomento, l’imputato del XXI secolo è senz’altro la reintegrazione del lavoratore illegittimamente licenziato nel posto di lavoro: ciò che farebbe dell’art. 18 un unicum nel panorama europeo. Anche questa tesi è errata. Essa, innanzitutto, ignora, o finge di ignorare, il vigoroso restyling cui l’art. 18 è stato sottoposto, appena due anni or sono, ad opera della l. n. 92/2012 (c.d. riforma Fornero) e, in secondo luogo, trascura i rimedi esperibili contro il licenziamento illegittimo in altri ordinamenti spesso invocati a modello.

Sul primo versante, in molti sembrano aver dimenticato che dal 2012 la reintegra è applicabile ai casi, tecnicamente residuali, d’illegittimità “qualificata”, vigendo nella generalità delle ipotesi una tutela contro i licenziamenti abusivi esclusivamente monetaria. In concreto, la reintegrazione è ancora prevista, quale che sia il numero dei lavoratori occupati nell’impresa, per il licenziamento affetto da nullità, perché discriminatorio o espressamente vietato dalla legge (come per la lavoratrice madre), mentre è contemplata, nelle imprese con più di 15 addetti, in situazioni eccezionali: nel licenziamento per motivo soggettivo (c.d. disciplinare), quando la condotta rimproverata al lavoratore non sussiste, non gli è imputabile, oppure quando il comportamento è punito, per espressa previsione contrattual-collettiva, con una sanzione meno grave (c.d. sanzioni conservative); nel licenziamento per motivo oggettivo, quando la causa economico-organizzativa risulta del tutto fantasiosa e/o pretestuosa, essendo accertata in giudizio la “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento” (art. 18, co. 7).

Ebbene, al netto dei molti difetti che affliggono il nuovo testo dell’art. 18 scaturito dalla riforma Fornero – assai meno semplice e lineare della versione originaria: quella sì, perfettamente traducibile in inglese! – nessun giurista europeo rimprovererebbe mai al legislatore italiano d’aver conservato la reintegrazione nei pochi casi in cui è prevista. La restituito in integrum, “il più antico ed efficace rimedio contro gli abusi”[2], è nota a tutti i paesi di tradizione giuridica anche minimamente paragonabile al nostro – dall’Austria alla Francia, dalla Spagna al Portogallo, dalla Germania fino al Regno Unito, che pure è paese notoriamente distante dal c.d. modello sociale europeo –  ogniqualvolta il licenziamento sia affetto da una causa di nullità[3]. Ed anche oltre. In alcuni ordinamenti, come quello anglosassone, l’ordine di reimpiego (re-employment) è, nei fatti, piuttosto raro; in altri è più comune, essendo preferito non soltanto quando il licenziamento sia discriminatorio ma anche quando importi la violazione di diritti fondamentali o libertà pubbliche costituzionalmente garantite: così per la Spagna, laddove la readmisión inmediata  è espressamente prevista dall’art. 108, co. 2, Ley de Procedimento Laboral e per la Francia, dove la reintegrazione, oltre a rappresentare la forma di tutela comune dei rappresentanti dei lavoratori (c.d. salariés protéges) e di quanti versino in particolari situazioni personali (gravidanza, maternità, malattia, infortunio ex L. 1225 ss. CT), è considerato dalla giurisprudenza il rimedio più adeguato ogniqualvolta sia accertata la violazione di una liberté fondamentale. Infine, se in Portogallo la reintegração continua tuttora a costituire rimedio generale avverso i licenziamenti illegittimi (art. 389 CT), in Germania la facoltà di ordinare la prosecuzione del rapporto originario (Weiterbeschäftigung ) è rimessa al giudice, che la dispone, di regola, in caso di licenziamento manifestamente infondato o viziato. È davvero bizzarro che tale sistema sia spesso invocato a modello, quando in Italia la preoccupazione maggiore sembra essere, almeno dal Collegato lavoro del 2010 in avanti, quella di limitare le prerogative del giudice, sia in rapporto alla flessibilità “in entrata” (decreto Poletti docet), sia a quella “in uscita”.

Il terzo argomento, quello attinente al dualismo del mercato del lavoro, ha un suo fondamento solo nella misura in cui è oggettivamente assai labile la tutela contro il licenziamento nelle imprese con meno di 16 dipendenti: spettando qui ai lavoratori illegittimamente licenziati la sola tutela indennitaria, peraltro molto esigua (tra 2,5 e 6 mensilità), essi finiscono per somigliare molto ai lavoratori precari, limitati nell’esercizio dei diritti perché continuamente esposti al ricatto occupazionale. Si tratta, peraltro, di condizione comune ai mercati del lavoro degli altri paesi UE, Germania e Francia comprese, con la differenza, non marginale, che in tali paesi l’asticella è fissata sulla minor soglia dimensionale dei 10 dipendenti, in luogo di 15.

Concludendo sulla “favola dei superprotetti”[4], non è un caso che nelle tabelle statistico-comparative elaborate dall’Ocse, l’indice di protezione dei lavoratori a tempo indeterminato (EPRC) attribuito all’Italia, nel quale gioca un ruolo determinante la disciplina dei licenziamenti, sia pari a 2,79, inferiore a quello assegnato tanto alla Francia (2,82) quanto alla Germania (2,98).

Ed è davvero stupefacente, e in qualche misura beffardo, che proprio all’art. 18 sia imputata la precarietà dei non garantiti da parte di un governo che ha appena rimosso la necessità di giustificare, con un’esigenza temporanea dell’impresa, un’assunzione temporanea nell’impresa: ciò che è avvenuto, con il I atto del Jobs Act (c.d. decreto Poletti), tanto per i contratti di somministrazione di lavoro a tempo determinato quanto per i contratti a termine, pure portando addirittura da una a cinque le proroghe, sempre a-causali, del termine finale di scadenza del contratto.

Il quarto argomento, oltre ad essere il più utilizzato, è anche il più odioso. La contesa sull’art. 18 non è affatto simbolica, avendo direttamente a che fare col rapporto tra lavoro e libertà: libertà di esercitare, nel corso del rapporto di lavoro, tutti i diritti riconosciuti dalla legge e dai contratti collettivi, in ciascuno degli ambiti sottoposti ad una disciplina legale o contrattuale in funzione di tutela della persona che lavora (dalla difesa della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro alla tutela della professionalità, dalla regolazione dell’orario di lavoro ai diritti sindacali…).  Detto altrimenti, è ben difficile che un lavoratore sprovvisto di un efficace strumento di protezione contro un licenziamento ingiustificato, si azzardi ad organizzarsi collettivamente e a denunciare, anche giudizialmente, un rischio per la propria sicurezza, a contestare un demansionamento, a rifiutare una richiesta abusiva di lavoro straordinario o notturno, a esercitare un diritto sindacale, ivi compreso il diritto di sciopero riconosciuto in Costituzione, quando la sua controparte ha licenza di licenziare, magari invocando a pretesto una ragione economica.

Qualcuno risponderà solerte che questa è una posizione “ideologica”, indimostrabile e indimostrata, mentre le statistiche attestano casi risicati di effettiva reintegrazione. Peccato che queste statistiche non provino nulla. Se invece di guardare alle cause di licenziamento, si misurassero le controversie avviate a rapporto ancora in corso, e quale che ne sia l’oggetto, si scoprirebbe che esse sono attivate, nel 99% dei casi, da lavoratori “coperti” dall’art. 18, pur essendo i medesimi circa la metà della forza lavoro. Forse, solo allora, con la forza dei numeri sovrapposta alla legge della ragione, avremo “dimostrato” quel legame tra lavoro e libertà che alberga nella norma più invisa a quanti hanno il privilegio di tenere il coltello per l’impugnatura.

*docente di diritto del lavoro all’Università di Bologna



[1] M. Pedrazzoli (a cura di), Le discipline dei licenziamenti in Europa. Ricognizioni e confronti, 2014, 344 s.

[2] M. Napoli, Lo statuto dei lavoratori ha quarant’anni, ben portati, in LD, n. 1/2010.

[3] Italia Lavoro, La flessibilità in uscita in Europa, 2014.

[4] R. Realfonzo, La favola dei superprotetti. Flessibilità del lavoro, dualismo e occupazione in Italia, in www.economiaepolitica.it

Commenti

  • alberto ferrari

    Il solo vero tabù dell’art.18 è che dietro ad esso si trincerano, da una lato, coloro che vogliono accusare tutti i lavoratori dipendenti di essere dei lavativi/lazzaroni che non vogliono lavorare e, dall’altro lato, coloro che vogliono accusare tutti gli imprenditori di essere dei lavativi capaci solo di affamare i lavoratori e di fare solo i propri interessi. Così non si va da nessuna parte. SEL era nata, all’inizio, con la convinzione che fosse possibile costruire un progetto culturale, prima ancora che politico, per un intero paese e non per una parte di esso. E questo perché al suo centro si erano posti i valori dell’equità, della solidarietà della libertà che sono valori fondanti dell’idea socialista sin da quando essa ha iniziato la sua storia. La ” nuova narrazione della sinistra” alla quale ci richiamava costantemente Vendola, era la via maestra per provare a superare quella “società divisa ” che è stata ed è una costante del nostro paese. Oggi SEL mi pare in uno stallo completo: se riporre al centro del proprio operare politico la contrapposizione o riprendere quella narrazione che poneva al centro un progetto per un intero paese, capace di riunire attorno a se la parte miglio del paese per proporre e costruire anziché riprecipitare nello scontro. L’economia sociale di mercato e le mitbestimmungen tedesche dicono ancora qualcosa ai compagni di SEL? O dobbiamo rassegnarci alle vecchie strade politiche delle sole proteste?

  • Dario

    Ma sul serio esiste un solo imprenditore al mondo che considera l’articolo 18 un problema? Qual è l’esigenza dell’imprenditore, sperare di guadagnare, ottenere finanziamenti o poter licenziare appena può? Questa è l’assurdità della discussione, Renzi è riuscito a far considerare un problema una norma basilare della tutela del lavoratore.
    Alberto, io fatico a capire quale sarebbe il desiderio di alcuni militanti come te: diventare come il PSI, stampella ufficiale e permanente del PD? Oppure fare finta che sia tutto come in passato, e dire che Bersani è come Renzi? Vorrei davvero capire l’utilità di una Sel che sta col PD qualsiasi cosa faccia (come in Emilia-Romagna). Vorrei davvero capire come si fa a fare quello che dici tu con gente che ha passato la vita nella DC o nel PPI.
    Il programma di Sel è cosa concretissima e molto socialista, il problema è che non è condiviso quasi da nessuno. Una cosa su tutte? Io considero il reddito di cittadinanza fondamentale per avere un paese civile ove nessuno muore più di fame, ma Renzi è contrario: come possono esserci spazi di dialogo con queste persone palesemente in malafede? Quando il PD sarà guidato da uno come Civati (ma con una cosa chiamata “coerenza”), se ne riparlerà, fino ad allora la vedo proprio difficile.

  • nino

    e’ ovvio che la cancellazione dell’art.18 è considerato da renzi e i suoi amici destrorsi un obiettivo che le forze padronali si sono posti da lunga data, da 44 anni per la precisione. Ora, se mi metto nelle vesti di un padrone delle ferriere è logico che voglia essere il capo in casa mia, pretendendo anche il diritto di cacciare a calci nel sedere chi si permette di obiettare alcunchè alle mie parole o chi non si comporta fuori dalla azienda come dico io, perchè io sono il Padrone.
    Pittibimbo, percio, che dice di essere un tipo innovativo, intende portarci al periodo delle ferriere.
    crede che uno status di cancellazione di tutti i diritti dei lavoratori renderà le imprese piu’ controllabili da parte dei suoi colleghi e farà scendere i salari così da essere “competitivi” come i greci. Perciò non c’è bisogno di essere einstein per capire che questa è una manovra funzionale all’ulteriore abbassamento dei salari nelle imprese. Mi dispiace per ferrari, ma chi sta con pittibimbo può pure non desiderare ciò, ma oggettivamente questa politica suicida la appoggia.

  • francesco

    Intanto però, confezionate accordi a prescindere con il PD di Renzi, quasi ovunque. Dov’è la coerenza in attesa di Godot?. L’elenco delle “malefatte” è corposo e non voglio dilungarmi…