Brexit, indipendentemente come andrà il referendum il danno è fatto. E l’Europa ne porta la responsabilità
In occasione dell’appuntamento referendario del 23 giugno, il grande circo mediatico ha da tempo confezionato e messo in scena la sacra rappresentazione del disastro economico-finanziario in cui il Regno unito e insieme l’intera Unione sarebbero destinate a cadere se il Leave, cioè la scelta di uscire dall’Unione, vincesse. Tutto appare un gioco di borsa, tutto è letto in chiave di alte, Insostenibili tensioni sui mercati e di un precipitare verso un punto di non ritorno. L’economia, d’altra parte, nell’Ue è tutto, è nata solo per questo, al di là delle nobili e coinvolgenti utopie di Spinelli, e tutto si deve svolgere secondo le sue logiche e i suoi precetti. Quindi l’unica salvezza è restare nell’Ue, dove appunto le regole sono regole.
In Europa il Regno unito è il Paese che gode del maggior numero di “opt-out” cioè di “rinunce” o, meglio, di atti di sottrazione alla legislazione europea, che Londra ha contrattato con Bruxelles. Per esempio è fuori dal Fiscal Compact e dall’Unione bancaria, creata nel 2014. E ovviamente non va dimenticato che è fuori da sempre da Schengen e dall’euro.
Ma, a dispetto di tutto questo, la Gran Bretagna è un Paese in cui le contraddizioni provocate dalle politiche dell’Unione europea sono esplosive e spaccano la società. Il che avviene anche nella forma feroce di guerra tra i poveri, ma soprattutto di sconto tra classi sociali, di cui ovviamente pochi parlano, mentre si mescolano confusamente opinioni e sentimenti diversi, secondo le due linee di frattura oggi dominanti nei processi politico-sociali e nell’evoluzione dei sentimenti popolari: destra, sinistra, popolo, élites o, per dirla alla Podemos, basso, alto.
Secondo i sondaggi precedenti l’uccisione della deputata laburista Jo Cox, attivista democratica del “no” all’ uscita (Remain), a favore della Brexit risultavano, nei sondaggi, il 62% dell’elettorato conservatore e il 36% di quello laburista. Oggi tutto appare più confuso e indecifrabile per lo shock provocato dall’ assassinio della parlamentare sulla pubblica piazza. Ma fuori dai perimetri dell’appartenenza politica, il Paese appare spaccato a metà attraverso una linea di contrapposizione che ancora una volta parla appunto di differenze sempre più accentuate tra le classi sociali e mette in luce l’abissale distanza tra il Labour Party e quello che una volta era il suo elettorato di riferimento e oggi è invece il bottino dalla demagogica e xenofoba destra di Farage.
Compresi, nel bottino, un numero crescente di immigrati della prima ora, che ora guardano con malessere le nuove ondate migratorie perché “portano via il lavoro e fanno abbassare il salario”. Ma non sono solo preda della retorica xenofoba, sottolinea Paul Mason, economista e editorialista del Guardina, in un’intervista apparsa sul Manifesto nei giorni scorsi. Loro la xenofobia la vivono come realtà. Sulla loro pelle.
Le loro città sono state abbandonate in uno stato di incredibile disordine e povertà, loro si sentono vittime della globalizzazione e sono divisi tra chi risolve il problema nella chiave xenofoba dell’anti immigrazione e chi, pur vivendo la stessa situazione di sofferenza e insofferenza verso lo stato delle cose, si sente ancora working class e vuole pensare ancora che il vero nemico siano le classi dominanti.
Ma il Labour Party non ha più le parole per dire cose di questo genere, non sa spiegare come oggi va il mondo, guardando non dalla City ma dai quartieri dell’abbandono, perché non ha più la volontà di pensare e agire secondo altre logiche. E di conseguenza, sottolinea Mason, non riesce più a trovare “argomenti di sinistra per restare nell’Ue”.
Il Labour da molto tempo fa parte delle ragioni per cui si è arrivati dove siamo. Non solo nel Regno unito ma, come il declino di tutte le sinistre novecentesche dimostra, ovunque in Europa.
La City e Tower Hamlets: sono le due realtà di Londra che emblematicamente raccontano la frattura sociale ed esistenziale al centro di quella grande metropoli che amiamo. Sono quei territori urbani le due facce antitetiche della battaglia pro e contro la Brexit: da una parte il mondo frenetico e scintillante degli affari, socialmente beneficato per storie familiari dei già ricchi e soprattutto per gli odierni effetti sperequanti dell’accumulazione verso l’alto della ricchezza; dall’ altra il quartiere più povero di Londra, abitato da un numero crescente di immigrati, bengalesi soprattutto, ma anche italiani, polacchi, cittadini dell’Est, quartiere con un alto tasso di natalità e con il 37% dei bambini sotto la soglia di povertà. Il futuro per molti è insomma segnato anche a Londra da una scala sociale solo in discesa.
Jeremy Corbyn, il leader del Labour Party, di suo sarebbe per la Brexit. Ma forse per pressione della parte del suo partito contraria, che è maggioritaria, forse perché preoccupato dei toni da ultima spiaggia che la campagna ha raggiunto, fortissimo su di lui l’impatto della morte di Jo Cox, forse perché teme che un’uscita senza alternativa potrebbe essere oggi solo una mossa al buio, si è schierato a favore del Remain. Anche per onorare, ha dichiarato, la memoria della sua deputata. Ma il suo giudizio sull’Ue è duramente critico. L’Europa non è abbastanza democratica e la sua politica di austerità è responsabile del disagio che ora molti imputano all’immigrazione. Non gli piace “il modo in cui Bruxelles prende le decisioni e spesso non è d’accordo con le decisioni che prende”, ha detto in un’intervista rilasciata a Repubblica in occasione di una veglia londinese per commemorare Jo Cox.
Si vedrà come andrà il referendum. Ma come dice e ha sempre detto l’economista Joseph Stiglitz , il danno è già stato fatto e l’Europa ne porta la responsabilità.
Commenti
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Danuta Ewiak
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Enrico Matacena