Buon compleanno a Pietro Ingrao
Ho partecipato, qualche giorno fa, ad una bella iniziativa del comune di Formia che ha voluto concedere a Pietro Ingrao la cittadinanza onoraria in occasione dei festeggiamenti per il suo 99° compleanno (30 marzo). Non si poteva, in pochi minuti, provare a sintetizzare la sterminata e poliedrica mole di attività e di riflessioni di questa straordinaria personalità politica che ha attraversato, da protagonista, tutto il ‘900, il secolo “grande e terribile”. Ho scelto, dunque, di produrre una sintesi un po’ arbitraria e certamente passibile di critica che voglio qui riproporvi come contributo ad una discussione utile per una rifondazione culturale di una nuova soggettività politica della sinistra contemporanea.
D’altronde immagino che Pietro Ingrao mai accetterebbe “festeggiamenti” infarciti di retorica celebrativa o riflessioni sulla sua storia politica disancorati da un pensiero critico e, in qualche occasione, autocritico (si pensi alle vicende dell’invasione sovietica dell’Ungheria nel ’56 o alla dolorosa radiazione dal Pci dell’area che diede vita al “Manifesto”). Ingrao ha un legame molto forte con Formia. Qui ha studiato al Liceo Vitruvio. Di questa cittadina ha un ricordo intenso per gli “inverni dolci”, per il “mare tiepido” e perché “tutto – terra e marina – diventava di smalto”. Ma Formia è decisiva per la sua formazione.
Sapeva bene che in quel liceo i figli dei contadini e degli operai non potevano entrarci e che per loro l’istruzione era garantita solo se diventavano preti. E’ forse questa la ragione per cui prova a scrutare altri codici del sapere, a selezionare una ricerca curiosa che lo porta ad incrociare “una letteratura del malessere, quella che non si combinava con il fascismo”. Ed è in questo ambivalente rapporto con l’istituzione formativa che prende corpo, a mio avviso, la prima grande dominante del suo pensiero politico e culturale: un impasto originale tra un’ansia spasmodica di ricerca e la persistente e fondativa presenza del dubbio. “Agiva su di me un’altra cattedra e mi parlava del mio secolo… Non mi convinceva una lettura troppo secca ed univoca del soggetto umano”.
In anni di censura e di oppressione politica la spinta della ricerca e del dubbio lo hanno portato ad “incontrare” personalità diverse tra loro, intellettuali antifascisti e liberaldemocratici: Massimo Mila, Franco Antonicelli, Leone Ginzburg, ad incuriosirsi dei “poeti maledetti” francesi. Ma sono due giovani professori, segnati da uno stesso drammatico destino (entrambi uccisi dai nazisti alle Fosse Ardeatine), a diventare per Pietro Ingrao insostituibili punti di riferimento di quegli anni, “i primi germi di un’eresia politica”: Pilo Albertelli e Gioacchino Gesmundo. Questi brevi riferimenti storici possono servire ad inquadrare la singolare autorevolezza di questo dirigente comunista, sono l’incipit culturale di una personalità che ha agito in anni in cui la struttura teorica ed organizzativa del movimento operaio, per necessità e per scelta, erano fortemente rigide. Eppure Ingrao ha saputo, nell’intero arco della sua vita, sfuggire a quelle rigidità. Non si è mai chiuso in un recinto o in una certezza.
Ha forzato ed innovato permanentemente la tradizione del movimento operaio. Non esiste un progetto di trasformazione della società dentro schemi prefissati ed ortodossi. I movimenti, la cultura del femminismo, l’ambientalismo, il pacifismo ridisegnano i confini di un pensiero forte e strutturato. E’ la visione, quasi profetica, del futuro. La “politica deve pensare l’impossibile, a fare il possibile sono capaci tutti”. E’ questa visione che ha animato la passione di un pezzo grande della società italiana. Oggi sembra scomparsa del tutto. Si vive in una dimensione ipertrofica del presente, quasi nell’attimo privato di senso. La politica ha smarrito la ricerca e l’ambizione di cambiare la vita individuale e collettiva. Si è degradata e rinchiusa in un delirio di autoreferenzialità. Devitalizzata e resa ininfluente. In balia di crescenti populismo o subalterna al primato della tecnocrazia.
Resta solo del vacuo “chiacchiericcio”, direbbe Ingrao. Eppure c’è tanta attualità nel suo pensiero politico. Le sue intuizioni culturali sono state profetiche. Benché sconfitto all’XI congresso del Pci, nel lontano ’66, oggi possiamo ben dire che aveva avuto ragione nell’individuazione di nuove tematiche e nuovi soggetti come leve di un possibile cambiamento. Ha inventato successivamente un nuovo vocabolario per rompere i modelli produttivistici ed economicisti, e persino l’antropocentrismo della tradizione della sinistra (si pensi al “vivente non umano”). Ha indagato in tempi non sospetti e con spirito critico le involuzioni del quadro istituzionale e la riduzione degli spazi democratici ed ha investito nelle forme della democrazia partecipata e diretta, socialmente connotata, per impedire una deriva elitaria ed autoritaria delle forme dello Stato e dei suoi apparati di riproduzione.
Tema che oggi appare decisivo in Italia ed in Europa. Ingrao ha provato, perdendo, a contrastare quell’idea fortemente radicata nella cultura di buona parte del gruppo dirigente della sinistra per cui il governo altri non è che una variante aggiornata della “presa del palazzo d’inverno”. Un residuo “leninista”, oggi lo chiameremmo autonomia del politico, che unito ad un’idea infondata della responsabilità, hanno fatto sì che l’azione dell’oggi fosse sistematicamente separata ed avversa al sempre più improbabile domani. Per Ingrao il tema del governo viaggia parallelamente a quello di una trasformazione sociale e culturale. Non può essere scisso. Né posposto.
Per poter vivere l’idea del futuro, l’alternativa, il progetto devono contaminarsi e vivere, processualmente, della partecipazione e dell’organizzazione dei soggetti vocati al cambiamento. Non un anatema, una scomunica, mai un’invettiva. Fa sorridere la recente affermazione perentoria di chi, pur richiamandosi tante volte alla cultura “ingraiana”, ha sentenziato che non esiste più alcuna sinistra nel Parlamento italiano. Come se fosse sopravissuto, dagli anni ’50 in poi, un fantomatico ufficio di certificazione dei veri requisiti per potersi fregiare del titolo. Una comica via di mezzo tra la Santa Inquisizione e “Good bye Lenin”. Ma c’è una parte del pensiero e persino del comportamento di Pietro Ingrao che sento molto vicini ed incredibilmente attuali proprio perché pressoché assenti dalle modalità con cui si esprime la politica oggi: la capacità di ascolto e condivisione della sofferenza. “La politica nella mia vita è una passione tenace. Ancora oggi in età così avanzata non si è spenta. Sono scosso da passioni vitali, direi dalla corporeità della vita”. La politica è alimentata da un rapporto vitale con la società. Non è mai sfera autonoma ed impenetrabile, cinica esibizione di una professione. Scruta il dolore sociale di anni durissimi come fosse dietro un potente macchina da presa, con lo stesso sguardo dei maestri del neorealismo italiano, con la stessa poetica dell’operaio di Charlie Chaplin, quasi a compensare la mancata possibilità di esercitare la sua altra grande passione: il cinema.
E’ la responsabilità soverchiante della lotta al fascismo e del bisogno di giustizia sociale che lo trascina ad un’altra scelta di vita. “Mi pesa la sofferenza altrui. Sono io che sto male, che vivo come insopportabili le condizioni di vita degli oppressi e degli sfruttati. Senza gli altri non esisto. Solo con gli altri posso alleviare quella sorta di nausea psichica che mi porto addosso… Fuori da questo agire collettivo non saprei fare politica”. Sembra un mondo lontano, distante dal narcisismo dilagante dei tempi nostri. Eppure se non distruggiamo quell’io ossessivo che accompagna simbioticamente il compulsivo bisogno di rinnovamento affidato solo al leader non costruiremo mai le fondamenta di una sinistra nuova. Il narcisismo, prevalentemente maschile, è l’altra faccia dell’irrilevanza della politica ridotta a pura finzione in un labirinto di specchi in cui perdersi e compiacersi. I poteri e gli interessi forti nelle società contemporanee hanno compreso bene le fragilità e le debolezze dell’uomo e concedono volentieri a chi interpreta la politica teatrini e riflettori per esaudire un bisogno di verifica costante della propria vanità. Ingrao ne è consapevole fino al punto di fare un’autocritica su di un peccato veniale, quello che può apparire una legittima forma di gratificazione “Ho amato troppo l’applauso”.
Questa sobrietà, questa autorevolezza morale oltre che politica, lo avvicina, nella percezione popolare, alla figura di Enrico Berlinguer. I due sono stati molto diversi tra loro. Spesso si sono confrontati a viso aperto e lealmente, su strategie e politiche differenti. Ma sentivi, vivendolo, che erano figli e dirigenti di una stessa comunità, di un comune sentire, di aspirazioni identiche di giustizia, di una solidarietà che con il tempo si è andata disperdendo. Ma gli ultimi anni della vita di Berlinguer i due si sono avvicinati molto politicamente. Con il progressivo abbandono della stagione del compromesso storico Berlinguer ha investito sul pacifismo (la lotta contro i missili a Comiso e per il disarmo) e sul conflitto sociale (la lotta contro il decreto sulla scala mobile, i diritti del lavoro).
La geografia politica del Pci cambiò con forti resistenze, a volte maggioritarie, nel gruppo dirigente centrale. E con la politica dell’alternativa, tanto cara ad Enrico come a Pietro, il Pci divenne il primo partito sorpassando la Dc. E’ la politica come progetto, partecipazione, ricerca che si è smarrita. Si è ritirata fino al punto che la finanza, i mercati, il profitto agiscono indisturbati sulla scena globale lasciando sul campo, come in una guerra, disoccupazione di massa, precarietà di lavoro e di vita, divari territoriali e disuguaglianze sociali, miseria e tanta infelicità. Bisognerebbe tornare a pensare in grande senza perdere di vista la fatica del qui ed ora. Siamo ancora bloccati tra le urgenze dell’oggi ed il bisogno vitale di ricostruire un pensiero forte. E dobbiamo pure fare in modo che non ci siano contraddizioni tra loro. Spazio e tempo si sono fatti molto stretti. Pietro Ingrao, nel suo ultimo libro intervista curato da Maria Luisa Boccia ed Alberto Olivetti, ci chiede di essere “gentili con la sua vecchiaia”. Io provo a farlo dedicandogli questa poesia di Federico Garcìa Lorca:
Il Sogno
Io. Che vuoi da me che non mi lasci, sogno?
Sogno. Dolci cigni d’oro e dolci lune nere
Io. Voglio giorni e notti
limpidi e senza segreti.
Auguri Pietro.