Cambiare l’Europa e l’Italia: la strada non è semplice e tanto meno la più facile. Ma ne vale la pena
“Flessibilità interpretativa”. Stamattina ad Agorà, con questo titolo Debora Serracchiani cercava di spiegare con enfasi il grande risultato che secondo lei avrebbe ottenuto Renzi nelle trattative europee. Risultato che Renzi rivendica in conferenza stampa come un cambiamento epocale, citando più volte la parola “crescita” come novità del summit.
Peccato che la parola “crescita” non sia una novità, essendo obbiettivo previsto dai trattati europei. Gli stessi che rimangono intatti e che la impediscono. Peccato che non sia cambiato niente e e che quella “flessibilità interpretativa” del patto di stabilità e dei vincoli non corrisponda a niente di quanto sbandierato in campagna elettorale (il 19 marzo Renzi definì il vincolo del 3% “anacronistico”, conducendo poi la campagna elettorale all’insegna dell’Europa dei burocrati cattivi “da cambiare”).
“La flessibilità interpretativa” è già prevista dal Patto di Stabilità e dai vincoli europei. Non c’è niente di nuovo, non si modifica niente e Renzi non ha ottenuto niente. Si tratta solo di agire tra le maglie di un quadro già stabilito (come stabilisce il documento approvato), in cui si chiede con il cappello in mano alla signora Merkel di darci la possibilità di muoversi tra gli spiragli aperti e previsti da questi vincoli terribili che hanno causato 7 milioni di disoccupati in più negli ultimi 6 anni in Europa (solo per citare un dato). In pratica, stiamo chiedendo il permesso alla cancelliera di fare qualcosa che è già previsto.
Inoltre, la “grande rivoluzione” riguarderebbe, al momento e come detto dal Premier in conferenza stampa, essenzialmente due cose. La possibilità della pubblica amministrazione di saldare i propri debiti e il cofinanziamento dei fondi europei. Ossigeno, per carità, ma niente di più. Sono interventi congiunturali, non all’altezza di un quadro drammatico e che ha invece bisogno di investimenti strutturali che i trattati e i vincoli impediscono. Questi dovevano essere esenti dai vincoli: gli investimenti in infrastrutture, un piano per la conversione ecologica dell’economia e uno per il lavoro che contrasti la disoccupazione giovanile. Cioè, investimenti che potrebbero invertire il segno della crisi.
Una volta ancora, quindi, il titolo offusca il racconto.
“C’è un’Europa da cambiare” aveva detto Matteo Renzi. E aveva ragione. Peccato che l’Europa oggi non sia cambiata, che nessun trattato e nessuna politica di austerity sia stata messa in discussione, che Juncker, esponente del Partito Popolare, sia diventato Presidente della Commissione europea e tornino in voga nomi vetusti come Enrico Letta. Emblemi delle politiche di questi anni e che mai hanno messo in discussione.
Qui stanno le ragioni della sinistra, anche alla luce di quanto successo in questi giorni. Non si tratta semplicemente di svelare l’inganno di una speranza evocata ma che, purtroppo, non ha niente di reale. Le ragioni oggi della sinistra stanno piuttosto nel costruire, con tenacia e coraggio, il pensiero forte dell’alternativa possibile, italiana ed europea. Sapendo che non ci salverà uno slogan, che un posto di lavoro non lo creerà una battuta, che non basterà una slide per togliere una generazione dalla precarietà, che la forma non sostituisce la sostanza e che presto tutto questo verrà percepito dalla carne nuda delle persone. Da quelle che avevano riposto fiducia in Renzi a coloro che non hanno votato. Che poi sono il 40%, non quisquilie.
La strada non è semplice e tanto meno la più facile. Ma ne vale la pena, una volta ancora.
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