Cambiare tutto per riaprire la partita in Italia e in Europa
Tanto tuonò che piovve: la Brexit segna nei fatti la fine dell’Europa, sotto i colpi della rabbia e della paura. La retorica dell’invasione dei migranti, della difesa dei confini, della sovranità nazionale ha la meglio su un’Europa senza anima, tutta burocrazia e tecnocrazia, borse e finanza, liberismo e assedio ai diritti dei popoli e delle persone. L’esultanza di Nigel Farage, Marine Le Pen e Matteo Salvini dovrebbe darci, però, la misura del passaggio epocale che si consuma, all’insegna del ritorno prepotente dei nazionalismi, dei razzismi e dell’assenza di una sinistra europea, degna di questo nome.
La crisi, prodotta dalla deregulation finanziaria, ha radicalizzato gli effetti di trentanni di politiche liberiste, producendo disoccupazione e precarietà, povertà di massa, disuguaglianze che hanno seminato ovunque disperazione, collera, rancore. Se ad essa, si sommano le conseguenze di delicati equilibri geopolitici che sono andati in frantumi e che oggi costringono i Paesi europei a misurarsi, in termini inediti, con gli effetti delle grandi migrazioni e con le insicurezze determinate dalla minaccia del terrorismo globale, si possono cogliere i fondamenti di una ondata che, con molta approssimazione, chiamiamo populismo e che interpreta un tema centrale del mondo contemporaneo: l’insicurezza economica ed antropologica, la paura di non farcela, la crisi identitaria. Complice la crisi dei sistemi di democrazia liberale, la rabbia si fa politica, proposta antisistema, rivolta contro l’establishment, il basso contro l’alto, il desiderio diffuso di punire classi dirigenti chiuse nelle loro torri d’avorio.
Seppur in presenza di fenomeni diversi, che vanno analizzati singolarmente, a me pare, che ci siano denominatori comuni, tra l’exploit di Donald Trump negli Usa, la Brexit in Gran Bretagna, la forte affermazione dell’estrema destra e la ripresa della retorica delle “piccole patrie” in molti Paesi europei e perfino l’affermazione del Movimento 5 Stelle nel voto amministrativo italiano.
E’ la rabbia, il rancore, perfino la disperazione a farsi proposta politica, occupando uno spazio di radicalizzazione ed offrendo risposte emotive che si adattano efficacemente alle paure.
E’ in questo contesto che si consuma la crisi del Partito democratico, a trazione renziana, ma anche l’insufficienza strategica del progetto di Sinistra Italiana.
La battuta di arresto di Renzi e della pretesa renziana dell’autosufficienza sono evidenti. La rottura con la sinistra e l’inesistenza dell’allargamento a destra hanno reso esplicito l’isolamento del Pd, la sua inadeguata capacità di coalizione. Questo quadro, se visto alla luce della nuova legge elettorale e delle modifiche costituzionali, oggetto di referendum, rischia di prefigurare scenari ulteriormente foschi per il Paese. Renzi paga fino in fondo anche le politiche prodotte dal suo governo e da quelli precedenti ( quelli figli della sospensione democratica operata da Napolitano, su indicazione della Troika nel 2011, quando la straordinaria stagione dei Sindaci e soprattutto il referendum sull’acqua lasciavano prefigurare una possibilità di cambiamento e di trasformazione del Paese, dentro la cui frustrazione vanno ricercati i prodromi del successo odierno del Movimento 5 Stelle), la loro subalternità alle indicazioni delle tecnocrazie europee (in linea con il quadro desolante offerto dalle forze politiche che aderiscono al PSE), solo in parte coperte dalla narrazione e dal coro mediatico che ha amplificato a dismisura la retorica sulla ripresa economica e dell’occupazione, per poi accorgersi che nelle periferie metropolitane i segni di quella ripresa sono fantasmi intangibili.
Ed è proprio attorno al tema della disuguaglianza, della paura di non farcela, dell’iniqua distribuzione del reddito, dell’ingiustizia crescente, dell’impoverimento del ceto medio che è necessario sviluppare una seria riflessione sul voto, sulla sconfitta, su un dibattito che non può essere rinchiuso nei confini angusti del politicismo. L’intervista di Romano Prodi a Repubblica di qualche giorno fa da il senso di una consapevolezza critica nei confronti del renzismo e delle priorità perseguite dal governo. Bisogna riconoscere questa consapevolezza, interloquirci, provare a ricostruire punti di vista, spazi di cambiamento, se vogliamo sottrarci all’irrilevanza e all’ineluttabilità della sconfitta .
Ma il risultato elettorale chiama in causa anche noi, la Sinistra, il progetto che faticosamente abbiamo messo in campo, da Cosmopolitica ad oggi.
Il nostro risultato è complessivamente negativo. Non mancano singoli dati incoraggianti, ma non tali da indicare una tendenza. Paghiamo, innanzitutto, l’assenza di un chiaro disegno politico e strategico, oltre che la mancanza di una leadership riconosciuta. Generalmente non siamo riusciti ad essere percepiti come una proposta in grado di andare oltre i confini della “sinistra radicale”. Il compito primario dei prossimi mesi deve essere quello di definire l’identità politico culturale del nuovo partito, la sua idea di Paese e di Europa, unica base possibile per una reale autonomia. Dobbiamo porci l’obiettivo di ricostruire un punto di vista autonomo, nel momento in cui tutte le sinistre, in Italia ed in Europa appaiono sopraffatte; dobbiamo provare a costruire una sinistra credibile perché utile socialmente.
Ma il dato elettorale negativo e l’ormai imminente apertura della stagione congressuale di Sinistra Italiana ci impone anche la necessità di una verifica critica del percorso scelto per la costruzione territoriale del nuovo soggetto politico.
Mi pare che la difficoltà politica generale, l’assenza di un chiaro profilo, la mancanza di un racconto generale, capace anche simbolicamente di riunificare e di dare senso alle mille pratiche puntiformi della sinistra diffusa, si rifletta anche sul piano organizzativo, dove il basso numero delle adesioni, l’assenza di luoghi, strumenti e regole democratiche comuni e la stanca riproposizione di logore dinamiche pattizie rischiano di minare nelle fondamenta la nuova costruzione politica, riducendola ancora una volta alla sommatoria di pezzi di gruppi dirigenti, sempre più litigiosi e sempre più avulsi dalla dinamica reale.
La decisione di costruire assemblee territoriali e nazionali di Sinistra Italiana sommando i rappresentanti di partiti e associazioni che stanno nel processo non funziona, non è espansiva, riproduce linguaggi e pratiche che scoraggiano la partecipazione, non favorisce l’incontro reale con lotte, vertenze, movimenti, associazionismo diffuso, ripropone recinti e perimetri che ci condannano alla sconfitta e alla marginalità. Siamo ancora in tempo, ma dobbiamo cambiare tutto.
A Cosmopolitica abbiamo detto “una testa, un voto” per alludere alla necessità che sia la democrazia il terreno, la cifra identitaria e costituente il nuovo soggetto: si utilizzino questi mesi che ci separano dal Congresso per definire davvero il profilo generale di Sinistra Italiana, renderlo riconoscibile, caratterizzarlo attraverso una battaglia larga e determinata nel referendum di ottobre che può essere spartiacque decisivo per battere il renzismo e per mettere all’ordine del giorno del Paese la necessità del cambiamento.
Parallelamente, la campagna di adesione deve intrecciarsi con poche, chiare parole d’ordine e campagne (per il reddito di cittadinanza, per la casa, ad esempio), in grado di incrociare la sofferenza vera e lo scandalo insopportabile delle disuguaglianze crescenti. E poi un Congresso dove siano gli aderenti a decidere linea politica, leadership e gruppi dirigenti, ma con la consapevolezza che di fronte ai fantasmi che tornano ad agitarsi, abbiamo bisogno di un nuovo pensiero alto, un nuovo sogno, una speranza da raccontare e per la quale valga la pena impegnarsi e lottare.
*Coordinatore Sel Lazio