C’era una volta una potenza in Sudamerica
C’era una volta un Paese che era riuscito a conciliare crescita economica e ridistribuzione del reddito aggredendo povertà antiche a colpi di politiche pubbliche, che era diventato protagonista globale co-fondando il gruppo dei Paesi Brics, che aveva coalizzato i Paesi latinoamericani per dire no a George Bush e al suo progetto dell’ALCA. C’era una volta un Paese governato da un presidente che era stato operaio metalmeccanico e che si era dimostrato un grande leader, portato ad esempio dai Grandi. Quel paese, il Brasile del Partito dei Lavoratori, oggi non c’è più.
Ciò che colpisce di più in questi giorni di instabilità istituzionale sull’orlo del ridicolo e che mette a dura prova la democrazia è il triste spettacolo di una classe dirigente inadatta, profondamente corrotta, che sta giocando col fuoco per tornaconti personali. La coalizione che sosteneva Dilma Rousseff, attaccaticcia come sempre nel panorama politico brasiliano, si è squagliata riposizionandosi per le prossime avventure. Una situazione incandescente alimentata dall’inchiesta Lava Jato (autolavaggio), una delle tante inchieste sulla corruzione, ma sicuramente quella più insidiosa, che sta mettendo a fuoco il collegamento criminoso tra politica e aziende pubbliche. Dilma Rousseff avrà ora 180 giorni per difendersi davanti al Senato che istituirà il processo di impeachment, ma la sua sorte politica è praticamente definita.
Il suo Vicepresidente, Michel Temer, considerato il regista di quest’operazione, ha utilizzato l’ondata di indignazione popolare generata dall’inchiesta Lava Jato che lo vede tra l’altro implicato, per destituire la presidente per una vicenda contabile sul bilancio dello Stato che nulla ha a che fare con la corruzione. Anzi, è Temer che risulta ora implicato in diverse trame corruttive e che è stato appena condannato a 8 anni di incandidabilità alle cariche pubbliche. Un pasticcio da tutti i punti di vista, con deputati del PT che hanno già depositato alla Camera la richiesta di impeachment per Temer che non si è ancora insediato come Presidente, con il Presidente della Camera Cunha destituito dalla Suprema Corte e con il leader dell’opposizione Aecio Neves formalmente inquisito per corruzione.
Quel Paese brillante guidato dal presidente operaio si era dimenticato però di fare le riforme più preziose che avrebbero evitato questo scenario grottesco. Il PT scelse di governare seguendo la prassi consolidata del consociativismo “oleato” a colpi di contributi neri, invece di spendersi per una riforma del sistema elettorale, del rapporto tra politica e imprese, di trasparenza. In Brasile il Presidente che vince le elezioni non ha mai maggioranza propria, ma deve negoziarla in Parlamento attraverso una vera e propria compravendita delle alleanze. E’ il sistema presidenzialista più debole al mondo, perché oltre alla mancanza di maggioranza propria, il Presidente è in ostaggio dalla Costituzione che prevede un meccanismo molto semplificato, visto il quadro brasiliano, per avviare l’impeachment. Come dimostra il fatto che dal ritorno alla democrazia negli anni ’80 sia già stato applicato due volte.
Il PT, Lula e Dilma oggi sono vittime delle conseguenze di non essere stati fino in fondo riformisti, di non avere avuto il coraggio, e forse neanche i numeri, per cambiare in profondità un sistema basato sul patteggiamento perpetuo. Per il Brasile si preannunciano tempi duri perché coloro che incassano questa manovra sono politici mediocri e soprattutto corrotti. E’ questo in un contesto di forte recessione, inflazione e perdita del PIL garantisce una deriva che in altri tempi sarebbe finita quasi sicuramente in un golpe militare.
Per fortuna gli anticorpi della democrazia brasiliana sono ancora forti, ma è molto probabile che da questa convulsa stagione nascerà un movimento di cittadini che eleggeranno solo chi darà garanzie di mettere mano a quelle riforme mancate che oggi fanno vacillare quanto di buono c’è stato negli ultimi 15 anni.
Per il Brasile si preannunciano altri sei mesi di passione, con in mezzo le Olimpiadi e una crisi economica che continua a colpire i cittadini. Sei mesi nei quali si combatterà a colpi di inchieste, avvisi di garanzia, pressioni dei media e dei grandi potentati economici. Il Brasile, qualche anno fa definito il “gigante addormentato che si è svegliato”, torna ad avere sonno.