Clima, da Lima un avvertimento: non si può più aspettare
Una cerimonia rituale attorno ad un “caracol” fatto di frutti della terra e di pannocchie di mais sparsi a terra. La leader indigena ecuadoriana Blanca Chancoso cammina tra i dirigenti e le dirigenti dei movimenti sociali qua a Lima per la Cumbre de los Pueblos, con una coppa nella quale arde legna profumata. É per dar loro il benvenuto, mentre intorno si organizza un picchetto spontaneo di contadini che poi marceranno nel grande parco delle esposizioni per protestare contro la megadiga di Conga. Spunta anche una bandiera No-Tav.
Il fulcro della Cumbre è al centro di Lima al Parque de las Exposiciones, un anello di tela verde, intorno al quale sono stati costruiti stand dei movimenti sociali che testimoniano la resistenza e la tutela della terra e della biodiversità. Più in là grandi tende verdi pistacchio. L’entrata, accanto al Museo Metropolitano di Lima, sede di una esposizione su arte, estetica e sostenibilità è presidiata da poliziotti in tenuta antisommossa. Incontro Rosa Guillen della Marcha Mundial de las Mujeres e responsabile internazionale della Cumbre, conosciuta sei anni fa quando assieme organizzammo una sessione del Tribunale Permanente dei Popoli per giudicare le imprese europee in America Latina. «Dobbiamo risentirci presto e con calma, Rosa – le dico – l’Italia sta ratificando il trattato di libero commercio tra UE, Perù e Colombia».
Passata la cerimonia, l’odore dolce del “’pau santo” nell’aria, riprendono i seminari, uno in particolare richiama la mia attenzione. E’ un seminario sui mutamenti climatici e le economie di transizione, con due oratori di eccezione, Eduardo Gudynas del CLAES, Uruguay che finalmente riesco ad ascoltare di persona, e l’amico di vecchia data ormai, Alberto Acosta, della FLACSO, Ecuador. Si è parlato di come arrivare gradualmente alla costruzione di un’alternativa fondata sul buen vivir, sganciandosi progressivamente dalla dipendenza dall’estrazione di combustibili fossili, alla progressiva decarbonizzazione dell’economia, così necessaria per assicurare la sopravvivenza del pianeta. Gudynas snocciola cifre, dice «ci troviamo come un paziente in stato grave al pronto soccorso, dobbiamo iniziare la cura, non possiamo aspettare ancora. Al massimo possiamo ancora immettere nell’atmosfera 1800 gigaton di anidride carbonica. Le riserve fossili conosciute ad oggi ammontano a 5 volte tanto, e se si prendono in considerazione anche le fonti non-convenzionali la cifra sale. Per mantenerci in vita dobbiamo limitarci ad usare un terzo delle riserve conosciute. Non c’è via di scampo, o smettiamo gradualmente di pompare petrolio o è la fine. Ma proprio dall’America Latina può partire l’alternativa». Come fare?
Si parte dalla riduzione delle emissioni, e si arriva alla riduzione della dipendenza dai mercati internazionali con un programma chiaro. Stop a nuove estrazioni petrolifere in zone a rischio, dove vivono popolazioni indigene non contattate o la biodiversità è a rischio. Poi sostenere uso selettivo del petrolio, solo per scopi di trasporto collettivo, riducendo i sussidi, frenando la speculazione sui prezzi, e stimolando la mobilità sostenibile, Proteggere le foreste, e ridurre la dipendenza dai fertilizzanti, attraverso agricoltura organica. Pensarci insomma nella prospettiva delle 7 generazioni, quella indigena. E prefiggerci di arrivare al “buen vivir” entro 175 anni. Gudynas mostra una agevole infografica , e ridendo dice: «si ma non ci vengano a proporre la Pachamama nucleare!» (evidente riferimento al sogno atomico di Evo Morales). Alberto Acosta rincara la dose. «Siamo un paese che esporta quasi solo petrolio, ma poi lo reimporta come benzina perché on sappiamo raffinarlo. Il tema però è come usare il petrolio disponibile meno e aumentarne il prezzo. Non si deve reinventare la ruota» dice Acosta, basta ascoltare la conoscenza indigena, quella del Sumak Kawsay, assicurando armonia con la natura e dignità umana. «Noi in Ecuador dipendiamo dal petrolio , il petrolio rappresenta il 18% del PIL, ma mica siamo come il Venezuela, noi di petrolio ne abbiamo poco».
Allora la domanda da porsi è “perché più energia? E per chi?” e li che viene decostruito il modello di sviluppo e subentra il tema del debito ecologico. Ma la transizione dallo sviluppo non può essere lasciata solo allo stato, è anche prerogativa delle comunità, dei municipi, di un progetto di sovranità energetica a livello territoriale, decentrato. Non grandi dighe ma piccoli impianti di produzione di energia idroelettrica ad esempio. Sostegno al rinnovabile su piccola scala, il solare ed il geotermico in primis. Il significato della campagna ITT Yasuni – “lasciare il petrolio sottoterra” è anche questo. «Peccato che poi questa è stata stravolta dalla decisione di Correa di archiviare il tutto» dice Acosta.
La contraddizione propria del Socialismo del XXI secolo continua: per pagare un debito sociale per le generazioni attuali, attraverso l’aumento della spesa sociale, si accumula debito ecologico per quelle a venire. E non solo visto l’effetto devastante delle attività di estrazione, e l’apertura delle infrastrutture necessarie. Una costante nelle vertenze e nelle denunce delle comunità indigene impattate. La loro voce si è sentita il giorno prima, poco lontano l’accampamento verde della Cumbre nell’auditorium del museo di arte di Lima, MALI.
All’apertura della Cumbre si è tenuta un’ “udienza” dei popoli indigeni su deforestazione e cambio climatico, alla presenza della relatrice Speciale delle Nazioni Unite sui Diritti dei Popoli Indigeni, la leader indigena Igorot delle Filippine Vicky Tauli Corpuz, Nel corso dell’udienza l’ong Forest Peoples Programme ha lanciato un rapporto globale sulla deforestazione ed i diritti dei popoli indigeni, il rapporto di Palanka Raya, dal nome della città nel Borneo nel quale si è tenuto a marzo il primo seminario di lavoro collettivo che ha prodotto prima la dichiarazione di Palangka Raya sulla deforestazione ed i diritti dei popoli delle foreste, e poi il rapporto globale. 20 milioni di ettari di foresta tropicale sono scomparsi solo nel 2012, in alcuni paesi del bacino del Congo l’accelerazione è ancor più evidente, ed i popoli indigeni sono ormai sotto assedio, un assedio causato dall’espansione delle attività estrattive, piantagioni di palma da olio e biofuel, grandi infrastrutture, per alimentare il modello di sviluppo e consumo globale.
Gli effetti sono aggravati dall’assenza di leggi per tutelare il diritto alla terra, al territorio ed alle risorse dei popoli indigeni, sempre più marginalizzati nei processi decisionali, e minacciati se non uccisi per il loro impegno in difesa della Madre Terra. L’udienza ha avuto momenti di grande emozione fin dall’apertura con il minuto di silenzio per ricordare il leader indigeno ecuadoriano Jose Isidro Tendetza Antun, poi ricordato anche dal Presidente della CONAIE José Herrera, e nelle parole rotte dal pianto della fiera leader indigena Sharon Atkinson, dell’Amerindian Peoples’ Association della Guyana.
Sempre dalla Guyana, Nicholas Frederick del popolo Wapichan, illustra le alternative alla deforestazione, programmi comunitario di mappatura partecipata e produzione di piani di sviluppo comunitario. La conoscenza tradizionale, e il riconoscimento dell’autonomia e del diritto alla terra sono al centro degli interventi di Onel Masardule, Kuna di Panama che ricorda la lotta del suo popolo 70 anni fa contro lo stato centrale, e il rifiuto del congresso Kuna di ogni forma di commercializzazione delle proprie terre. O Simon Valencia Lopez della Colombia leader di uno dei più grandi territori indigeni “demarcati” dell’America Latina. A fronte delle alternative restano però le minacce: i piani di sviluppo infrastrutturale dell’IIRSA denunciati da Robert Guimaraes Vazquez della regione di Ucayali, o le grandi miniere dall’impatto devastante come testimonia Rene Ngongo, della repubblica Democratica del Congo, già insignito del prestigioso Goldman Environmental Award.
Grida la sua indignazione e determinazione Ruth Buendia del popolo Ashaninka del Perù pronto alla resistenza ad oltranza, dopo aver perso alcuni suoi leader come ad esempio Edwin Chota che si opponevano alle imprese del legname. O Josias Manhuary, capo dei guerrieri del popolo Mundurucu dell’Amazzonia Brasiliana in resistenza contro le grandi dighe portato all’udienza da Greenpeace Amazzonia. O ancora, il capo cinto da un copricapo piumato, il viso “pintado” con i colori del guerriero, Manari Ushiugua, del popolo Sapara dell’Ecuador, minacciati di estinzione dalle invasioni delle imprese petrolifere. Ecco il volto umano della COP, quello che nel Pentagonito scompare dietro il linguaggio “onusiano”, asettico e ambiguo per non urtare la suscettibilità di nessuno. Lontano anni luce. Sono all’aeroporto per rientrare in Italia, sento parlare due delegati, un africano ed un’indonesiana. “Ecco anche stavolta ci proporranno l’ennesimo piano di azione, per tenere tutti intorno al tavolo prima di Parigi, A Doha hanno parlato di via d’entrata, a Cancun di accordo, a Durban di piattaforma. Che si inventeranno ora?”. Lo sapremo il 12 dicembre.