Commissione Ue, rigore tedesco e il resto è niente
La scoppiettante messa in scena di Matteo Renzi sulla scommessa di ottenere qualche benefica modifica delle politiche europee, per rilanciare sviluppo e lavoro in Italia, ha via via perso smalto. Il premier non ne parla quasi più e il suo gran raccontare della Presidenza italiana, che sino a poco tempo fa sembrava un appuntamento decisivo della storia, si è ridotto alla fine pressoché esclusivamente alla richiesta della casella denominata Pesc. In Italia, malata di dibattito provinciale e gossiparo, lui l’ha fatta diventare famosa. L’ha ottenuta, ma non vale niente, perché in base ai Trattati non è prevista una politica estera dell’Ue. Chissà perché su questo punto decisivo il grande circo mediatico del nostro Paese non ha fatto i dovuti approfondimenti, che invece fa ogni volta che si tratta di mettere sotto tiro gli oggetti del gioco di intrattenimento televisivo che è oggi la politica.
Ogni Paese, in politica estera, fa come vuole, al di là del teatrino degli scambi di opinione che avvengono nei summit diplomatici, presieduti, da oggi, dall’ Alta Rappresentante della Pesc che viene dall’Italia. Questa la funzione, di mero prestigio decorativo, della carica che è stata al centro dell’ostinata “determinazione” di Matteo Renzi.
Persiste di europeo, in queste ripresa post estiva, soltanto la pressante richiesta di Bruxelles di mantenere fermo l’impegno sulle “riforme strutturali”, cioè quelle vere – mai come in questo momento vien fuori chiaro che all’Europa della riforma del Senato non interessa nulla – tese, quelle vere, a una radicale riduzione della spesa pubblica, per debellare il debito e un’altrettanta radicale riforma del mercato del lavoro. Su questo la pressione non dà tregua. Liquefazione di quel che resta del sistema di welfare e dissolvimento dei diritti del lavoro: la vera questione in ballo è solo questa.
Nel rapporto di Bruxelles sulla competitività dell’economia europea nel 2014, l’analisi sulla crescita italiana è impietosa e punta a mettere in evidenza anche i limiti delle riforme fatte e ventilate sul mercato del lavoro. Tali riforme, si nota, hanno avuto come focus la flessibilità – in entrata e in uscita – ma hanno trascurato di affrontare la rigidità dei meccanismi di determinazione dei salari. Che dovrà essere invece un altro capitolo importante della riforma in questione. Più chiari di così non si potrebbe essere. E a Bruxelles non piacciono neanche le riforme fatte per decreto e questo non certo per questioni di procedure democratiche ma perché, fanno sapere, un tal metodo non permette di valutare per tempo l’impatto e le conseguenze della misure adottate in termini di efficacia del sistema.
Anche da Draghi sono venute indicazioni analoghe. L’economia in Italia va peggio del previsto, come era per altro prevedibile e come chi mantiene un po’ di saggezza critica e non teme di passare per “gufo”, va dicendo da tempo. Un’ulteriore contrazione dello 0,2% del pil nel secondo trimestre, ci dicono gli indicatori e la Bce sollecita il governo a rafforzare ulteriormente la politica delle riforme perché sulle riforme si gioca per il destino politico dello stesso Renzi una partita importante.
Nel frattempo Jean Claude Juncker, nella sua qualità di presidente della Commissione europea, ha concluso il fondamentale lavoro di nomina dei commissari che dovrebbero farne parte nella legislatura. Juncker voleva che ci fossero più donne, secondo l’imperativo del politically correct di “genere”, in auge a Bruxelles, “ten or more”(almeno dieci), ma è riuscito soltanto a promuoverne nove, tra cui ovviamente l’italiana Mogherini.
La nuova Commissione si presenterà all’Europarlamento il 29 settembre e in quei giorni, fino al 3 ottobre, ogni commissario esporrà le sue proposte e sarà sottoposto al voto. Dovrebbe andare tutto liscio, a meno che la questione di genere faccia inciampare nel dibattito un commissario particolarmente animato da misoginia come lo spagnolo Miguel Arias Canet, destinato a dirigere la commissione Clima e Energia. Ha avuto modo di dichiarare come cosa normale che affrontare un dibattito con una donna è complicato perché “dimostrare superiorità intellettuale potrebbe esser interpretato come un comportamento sessista”. Insomma, di tutto di più del peggio, in questa Europa che rischia di uscire definitivamente anche dal cuore di chi ancora la ama perché si sente europe@.
Se si scorre la lista dei nuovi componenti della Commissione può saltare all’occhio l’assenza di nomi tedeschi, nei posti chiave dell’economia e delle finanze. L’unica casella importante occupata da una personalità del Paese di Angela Mekel riguarda l’Agenda digitale, assegnata a Gunther Oettinger. Ma l’impressione è quanto di più lontano ci sia dalla realtà delle cose. Le nomine sono tutte di gradimento della Cancelliera o confezionate in modo che nulla la turbi veramente. Sul Corriere della sera Luigi Offeddu, tra il serio e l’ironico, ha scritto che la Commissione potrebbe essere chiamata Komission e si avrebbe così una più chiara visione della realtà. Sicuramente la parola meno gradita alla nuova Commissione e che difficilmente comparirà nella sua agenda è “deroga”.
Il nuovo esecutivo, ispirato all’idea e alla prassi dei Trattati, di una governance che funziona attraverso la mediazione tra i governi e la concertazione degli stessi, conferma in ogni singola scelta dei nomi non solo la linea del rigore neo-liberista e l’inflessibilità dei vincoli, che sono il mantra ideologico del ministro tedesco Wolfang Schouble, ma anche la geografia delle alleanze nordiche della Germania che rende possibile, nel complesso sistema di funzionamento della Commissione, di non deflettere dalla linea neo-lberista, che è l’anima oggi dell’Europa. E la sua dannazione, diciamo pure
Significativo il caso del socialista francese Pierre Moscovici, che ha conquistato il portafoglio Affari economici. Era d’altra parte assai difficile negare alla Francia, nonostante il declino di Hollande, il diritto a una casella chiave. Ma l’attribuzione di un posto chiave è stata contestualmente accompagnata dagli effetti depotenzianti di una ristrutturazione del funzionamento della Commissione ideata dal presidente Juncker. La “piccola” rivoluzione del Presidente della Commissionenei fatti crea commissari di primo rango e commissari di secondo rango e infatti Moscovici, considerato evidentemente di secondo rango, sarà sottoposto al controllo di due vicepresidenti, a cui dovrà rendere conto e che avranno anche potere di veto sulle sue decisioni. I due sono ovviamente convinti esponenti dell’ortodossia del rigore, due falchi, per dirla in metafora: Jyrki Katainen, già primo ministro della Finlandia, che il premio Nobel Paul Krugman rimproverò di aver rovinato il suo Paese con l’austerità, e il lettone Valdis Dombrovskis, che non è da meno del finlandese.
La Germania lavora dietro le quinte, sta nei posti che contano nella complessa macchina comunitaria, e per la Commissione lascia fare a Juncker, sapendo che si tratta di uno zelantissimo esecutore della linea del rigore. Parlando alla Bundestag, il giorno prima delle nomine, la Cancelliera Angela Merkel, ha esaltato per l’ennesima volta la linea del rigore, invitando a fare come fanno loro: il magico mix di rigoroso rigore e virtuose riforme; e anche il tetragono Schouble ha rilasciato nei giorni scorsi, mentre Juncker metteva a punto le sue scelte, dichiarazioni dello stesso tenore. Ovviamente anche per rassicurare gli elettori tedeschi che tutto va come deve andare, ma forse soprattutto per avvertire i Paesi in difficoltà che margini non ce ne sono. E probabilmente per gettare acqua sui volatili entusiasmi suscitati dall’incontro alla festa bolognese dell’Unità dei giovani leader in camicia bianca d’Italia, Francia e Spagna.
Juncker presentando la squadra ha dichiarato che il compito della Commissione sarà quello di avviare l’Europa sul cammino della crescita e dell’occupazione. Che dovrebbe dire se non le solite bugie?
Non c’è altro da fare, se si vuol fare qualcosa di alternativo, che riprendere i temi europei, i vincoli, i parametri, il fiscal compact. E parlare un’altra lingua, almeno per salvare e alimentare la capacità di giudizio. Senza di che si resta al palo. E chiedere conto, per quel che è possibile, della Presidenza italiana, che non è il teatrino delle performances del governo e resta là come un ectoplasma, senza che si riesca neanche a sollevare i problemi.
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