Costituzione del ’48, quasi un finale di partita
Siamo finalmente alla democrazia decidente, ha annunciato un gaudioso Renzi parlando alla Camera, nel giorno (11 aprile) in cui la sua riforma costituzionale, a firma Maria Elena Boschi, è arrivata per l’ultima lettura a Montecitorio. Più che all’assemblea dei deputati e delle deputate Renzi ha in realtà parlato alla sua trasversale maggioranza, dal momento che tutte le opposizioni hanno abbandonato l’aula, per protesta contro i modi e i tempi decisi per il rush finale di una riforma di tale portata.
Obiezioni e critiche sono rimaste inascoltate e respinte – alla Camera la maggioranza è, com’è noto, ferrea e blindata – perché, ha detto Renzi, il tempo impiegato per discutere è stato lungo, gli emendamenti, in ogni passaggio, una valanga e ormai non c’è più nulla da discutere, c’è solo da accelerare le decisioni. Il Paese infatti – “gli italiani” – non si aspettano altro che questo, come il premier e il suo staff di maggioranza amano ripetere, reiterando il mantra nazional-pop che li contraddistingue. Alla fine poi, ha continuato a sentenziare Renzi, decideranno loro, gli italiani appunto, col referendum, l’ appuntamento finale previsto per ottobre, che, per come lo presenta e lo rappresenta lo stesso premier sembra una sua benevola concessione. Ed è invece l’obbligatorio e vincolante dispositivo previsto dalla Costituzione con l’articolo 138, che stabilisce che al “popolo sovrano” tocchi la parola finale nel caso in cui una legge di revisione costituzionale non sia approvata “nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza di due terzi”. Il che è quello che è accaduto: non ci sono stati i due terzi, perché la riforma renziana ha spaccato in due il Parlamento ed è passata nel tritacarne della grande circo mediatico non per quello che è – un salto nel buio a causa del combinato disposto tra revisione costituzionale e ferreo dispositivo maggioritario della nuova legge elettorale detta Italicum, ma perché è stata presentata solo come uno dei tanti passi modernizzatori del nuovo corso politico. Renzi va però anche oltre, vuole altro e con l’attribuzione a se stesso della decisione di ricorrere al referendum, tenta la mossa plebiscitaria che, nei suoi calcoli, consoliderà il suo potere per tutta una fase.
Questo almeno è il suo calcolo. Insomma non si vota sul cambio di fondamentali articoli costituzionali – una quantità enorme di articoli, un vero e proprio stravolgimento compiuto per di più da un Parlamento su cui pesa il giudizio di illegittimità della Corte costituzionale in relazione alla legge elettorale del “Porcellum” – ma si vota su di lui, sul capo del governo che del decisionismo ha fatto il suo programma di cambiamento del Paese. E’ lui stesso al centro del battage referendario, è lui che deve vincere perché se perde se ne andrà. Così afferma. Anche questa affermazione è un’arma di ricatto che Renzi adopera spavaldamente, sapendo che, almeno per come le cose appaiono oggi, non c’è una seria alternativa a lui. I Cinque Stelle, forse, ma destano ancora preoccupazioni tra i moderati.
Se la mossa di Renzi dovesse riuscire sarebbe una botta micidiale all’ordinamento democratico per come la Costituzione prevede e norma le cose, e, soprattutto, per il senso di legge fondamentale che unisce il Paese che la Carta del 48 ancora contiene. Carta che è sopra le parti, Carta che garantisce tutti. La riforma – o controriforma come l’avremmo chiamata in tempi in cui il disordine del lessico politico era meno invasivo – sarebbe così ridotta a instrumentum regni nelle mani del premier, svuotata della materia di condivisione democratica e di giustizia sociale a cui era ispirato il patto tra Stato e cittadinanza, e che la Repubblica, nel bene e nel male, ha garantito o ha provato a garantire. Sempre meno, questo è anche parte non secondaria del problema
Ora siamo alla dichiarazione e alla messa in scena senza infingimenti e giri di parole della cosiddetta democrazia decidente. Decidere è l’arte della politica, ovviamente. Il problema allora non è il decidere ma che cosa si decida e soprattutto come si decidano le cose che si vogliono decidere. E quale rapporto ci debba essere tra le istituzioni della repubblica, quali contrappesi debbano essere resi funzionali a che le cose marcino entro i binari stabiliti dalla Costituzioni e perché il decidere non travalichi gli argini della sua legittimità. Ciò che è invece accaduto, con l’affermarsi, via via negli ultimi decenni e con un ritmo sempre più accelerato negli ultimi dieci, di un primato del decidere dell’esecutivo e di un crescente depotenziamento del decidere legislativo del Parlamento. Decretazione d’urgenza o ordinaria dell’esecutivo contro prassi del legiferare che una volta era di competenza primaria del Parlamento ma via via non è stato più così. Ne basterebbe una di assemblea della rappresentanza, sistema monocamerale secco, se ne venisse fuori un Parlamento nella pienezza dei suoi poteri. Ma, come ha spiegato Matteo Renzi nel suo recente giro americano, da noi il Parlamento ha fatto la cosa portentosa, l’unico in Occidente, di diminuirsi i poteri. Un bel primato, insomma e quindi non c’è da stupirsi se siamo a questo punto. La Repubblica parlamentare – cioè quella prevista dalla Costituzione – si è resa sempre più evanescente e sempre più evanescente si è reso il Parlamento. Ma, va detto, non certo soltanto per responsabilità di Renzi. Lui fa la mossa finale. L’uomo adatto al momento per lui massimamente favorevole. perché il disordine politico-istituzionale è alle stelle e tutto è possibile? Più o meno.
Le riforme costituzionali e la riforma elettorale non possono essere considerate insomma la causa del processo che ha portato al primato dell’esecutivo e all’avvilimento del Parlamento. Ne costituiscono semmai l’effetto, l’esito finale. Quella di Renzi non è neppure un’accelerazione dettata da una tattica meramente autoritaria: lui va dove lo porta il flusso delle cose, che gli permette molte delle sue mosse. Per esempio la mossa plebiscitaria di cui sopra gli è resa possibile dalla crisi della rappresentanza politico-istituzionale, che è il presupposto del renzismo e di tutto quello che, in questa epoca di diffuso disincanto democratico, alimenta da una parte l’astensione di massa dal voto, dall’altra l’astio popolare contro il sistema della rappresentanza.
La carta che rimane per chi, come noi, è contrario alla “riforma” della Costituzione, è la battaglia per il no al referendum di ottobre. Renzi dà per vinta la sua partita. Ma contrastarlo efficacemente non sarà soltanto dire no in quel momento e invitare a farlo. Significa da subito pensare a come trovare le parole e le pratiche, a come inventare i concetti e le performance comunicative perché i valori di quella Carta intercettino di nuovo sofferenze e disagi, paure e stati d’animo, aspirazioni, desideri, sentimenti del nostro tempo. Solo questo e solo questa è la partita che vale la pena di giocare. Se si vuole vincere o, almeno, provare spostare l’ordine del discorso, veicolando l’idea, soprattutto tra le giovani generazioni, che avere una Costituzione democratica continua a essere importante, perché è un bene in comune a cui non si può rinunciare.
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claudio
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