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Martedì, 18 novembre 2014

Cronache giordane: diario della Missione in Giordania e Libano della Commissione Esteri

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La prima cosa che vedi prima di arrivare ad Azraq sono gli aquiloni dei bambini che volano in mezzo al deserto. Non sono colorati come li immaginiamo noi, sono scuri, costruiti con pezzi di plastica raccattata qua e là. Azraq è un campo profughi dell’UNHCR a 50 km dal confine siriano della Giordania ed a 150 da quello Iracheno; ospita quasi 15mila rifugiati siriani e di questi il 55% sono bambini.

Youssef viene da Aleppo, è riuscito a scappare con tutta la sua famiglia, sua moglie ha dato alla vita la sua quarta figlia nell’ospedale del campo, costruito con i fondi della Cooperazione Italiana (1,2mln di euro). Ci ha tenuto a mostrarci la sua casa, uno “shelter”, così si chiamano le strutture del campo, che lui stesso ha decorato per ridare normalità ad una esistenza stravolta dalla guerra.

La cosa che sconvolge di più in questi luoghi è la dignità, quella con cui Youssef affronta la sua nuova vita, quella con cui ci mostra la sua nuova e modesta casa, qualche materasso per terra, qualche tenda per chiudere gli spazi e un piccolo fornello da campeggio. Così vive chi fino a ieri faceva l’avvocato, il medico, l’impiegato. Trovi di tutto in questo come in altri campi che affollano la Giordania.

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Un paese che ha 6,9 milioni di abitanti che ospita in questo momento circa un milione di profughi siriani a cui vanno sommati quelli iracheni e soprattutto quelli palestinesi. Il 55% della popolazione giordana infatti è di origine palestinese, sono i profughi fuggiti a partire dalla guerra del 67.

Il Primo Ministro ci dice con estrema tranquillità che la Giordania è un paese accogliente, che accoglie nel rispetto del diritto internazionale chiunque fugga da una guerra, ma che anche noi dobbiamo assumerci le nostre responsabilità, quando decidiamo di farla una guerra e soprattutto nel condividere il peso dell’accoglienza. Io ho pensato alla retorica del nostro dibattito politico, agli appelli all’Europa perché ci aiuti a gestire poco più 60 mila rifugiati arrivati sulle nostre coste e ho provato un senso di profonda vergogna. Anche qui cominciano a sentirsi i morsi della crisi, ma la gente non va ad assaltare i campi profughi e soprattutto non ci sono seminatori di odio e razzismo che infiammano le periferie.

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“Dobbiamo aiutarli a casa loro” continua a sbraitare in giro per tv e giornali Matteo Salvini, ma queste persone una casa non c’è l’hanno più e forse un po’ è anche colpa nostra. Caro Matteo mi auguro che tu non debba mai trovarti nella stessa condizione di Youssef, ma se dovesse capitarti sappi che ci sarà sempre qualcuno pronto ad aiutarti ed anche qualche idiota che continuerà a dire che “dobbiamo aiutarli a casa loro”.

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