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Martedì, 15 marzo 2016

D’Alema, Renzi e la Sinistra

MASSIMO D'ALEMA E MATTEO RENZI

Mi ha molto colpito la lettera di Fabrizio Rondolino a Massimo D’Alema pubblicata da l’Unità. In estrema sintesi, Rondolino riconosce nelle parole di D’Alema dell’intervista al Corriere la manifestazione di un congedo, di un punto di non ritorno nel rapporto con il Pd. Muovendo da questo congedo – di cui semplicemente prende atto – Rondolino compie due riflessioni.

La prima è questa: Renzi sta facendo oggi quel che D’Alema aveva provato a fare negli anni Novanta. Un percorso di modernizzazione e di innovazione della Sinistra, contro la tradizione. Da questo punto di vista il renzismo è la prosecuzione logica della terza via che aveva segnato le scelte di fondo dell’allora leader del Pds.

La seconda è ancora più lapidaria: provare a tornare indietro rispetto a quel processo di modernizzazione è impossibile, perché la tradizione – quella (post)comunista e cattolico-democratica – è definitivamente esaurita. Quella storia è morta e Renzi vince perché intorno a lui non si conserva nulla di più vivo. Nell’illusione di richiamare in vita ciò che è morto D’Alema sbaglia e quindi perde.

Sulla prima consento. Saremo tutti più maturi (e più credibili) se imparassimo a decifrare meglio e più a fondo la storia degli ultimi trent’anni della sinistra italiana. Che è la storia della sua lenta, progressiva e inesorabile assunzione del punto di vista dell’avversario. Craxi, D’Alema e Renzi sono davvero, come scrive Rondolino, epifenomeni, in momenti diversi, di un medesimo processo. Che è il processo che ha assunto un vangelo – il neoliberalismo -, un nemico – il conservatorismo del sindacato e della sinistra storica –, e alcuni mantra: l’individualismo, il merito, la competitività, una certa grandeur nazionale in ambito internazionale.

Non sono identici tra loro e neppure simili ma sono parti consecutive di un processo, che ha trasformato e trasfigurato in pochi decenni un mondo di valori e un tessuto popolare di organizzazioni, luoghi, simboli. L’esito di quel processo, il renzismo, è ovviamente il punto più avanzato che spinge la tradizione fuori dai suoi confini e che trasmuta in qualcosa di molto diverso. Ha ragione D’Alema: è il partito della Nazione, senza confini a destra. È la manifestazione definitiva della resa al campo avversario, ai suoi codici comunicativi e ai suoi miti.

La seconda riflessione di Rondolino è invece capziosa perché contiene una parte di verità (la sconfitta della sinistra storica) ma anche due grandi errori: la critica a D’Alema che oggi critica il punto di arrivo di quel processo, non riconoscendovisi più; e l’idea che questa modernizzazione, cioè il renzismo, sia l’unica modernizzazione possibile.

L’intervista di D’Alema al Corriere va invece apprezzata per quello che dice – il Pd di Renzi è oltre il perimetro del riformismo, è il tradimento definitivo di ogni idea di trasformazione – e per ciò a cui allude, e cioè la possibilità di dare voce e organizzazione a un processo di allargamento del dissenso interno al Pd verso la costruzione di un nuovo partito della Sinistra italiana.

Però c’è un ragionamento che D’Alema non fa perché non può farlo e che invece dobbiamo fare noi, muovendo dalla parte di verità contenuta nella seconda riflessione di Rondolino e contraddicendo con grande chiarezza l’errore macroscopico che essa, allo stesso tempo, contiene.

Questo: la sinistra tradizionale è finita e noi – noi, proprio noi – dobbiamo sapere mettere in campo una modernizzazione e una innovazione della politica e della Sinistra che non coincida, anzi che confligga, con il renzismo.

Perché è vero che con la resistenza e con la conservazione non andiamo da nessuna parte. Potremmo al massimo amministrare uno spazio politico ed elettorale sempre più ridotto e sempre più anziano.

Il nostro non è un assillo generazionale e men che meno è l’accettazione della litania rottamatrice per cui ciò che è nuovo è inevitabilmente positivo e ciò che è vecchio è inevitabilmente negativo.

Quel che sappiamo è che la difesa del quadro precedente è impossibile (il mondo del lavoro è cambiato, sia dal punto di vista produttivo sia antropologicamente, nella coscienza e nei desideri di chi lo vive) e inefficace anche sul terreno della costruzione del consenso.

Le persone cui dobbiamo rivolgerci sono infatti cresciute (alcune addirittura nate) nella antipatia o, peggio, nell’indifferenza nei confronti della politica e della sinistra. Dei suoi linguaggi, delle sue incoerenze, delle facce e delle biografie che l’hanno abitata e diretta negli ultimi venti anni.

Qui sta l’esigenza di una vera e propria rivoluzione nel nostro modo di fare politica. Più a contatto con i territori, più pragmatica sul piano amministrativo, più radicale sul piano dei valori, dei comportamenti e dell’orizzonte strategico. Più locale e allo stesso tempo più globale, a vocazione europea, più democratica e più coinvolgente. Meno burocratica, meno liturgica, meno ingessata, meno parolaia.

Con un programma di innovazione vera del Paese e dell’Europa. Che colga la sfida di Renzi e metta in campo, per la prima volta dopo tanto tempo, un’idea di sistema e di modello di sviluppo progressiva, che possa valere per l’Italia e l’Europa del 2016.

Conversione ecologica, ricerca, innovazione tecnologica pubblica, valorizzazione dei distretti produttivi territoriali, produzione di qualità, investimenti in formazione e Università. Tutto questo chiama in causa lo Stato, il ruolo decisivo di un soggetto che deve essere imprenditore e innovatore e che allo stesso tempo deve essere garante di un livello di equilibrio sociale, di eguaglianza, di redistribuzione e di eguale accessibilità ai diritti e ai servizi da parte di tutti. Qui si colloca il tema del reddito minimo garantito (legato a politiche di reinserimento al lavoro), il tema della diminuzione dell’orario di lavoro, quello della tassazione delle speculazioni finanziarie, quello di un nuovo piano del lavoro proiettato non all’assistenzialismo ma alla costruzione delle tante opere pubbliche necessarie, alla cura del territorio contro i dissesti idro-geologici e gli abusi. Qui si colloca l’esigenza di una vera riforma della pubblica amministrazione che non fornisca l’alibi per tagliare lavoro e servizi; e di una riflessione sul trasporto e lo sharing pubblico, sottratto cioè a logiche di speculazione. Qui si colloca la necessità di un’alleanza tra soggetti produttori (il mondo del lavoro nelle sue diverse articolazioni e le parti responsabili dell’impresa, capaci di investimenti produttivi e di qualità) che porti l’Italia fuori dalla crisi e in un nuovo orizzonte che renda possibile un progetto di trasformazione.

O cogliamo queste necessità oppure ha ragione Rondolino. Noi siamo morti e Renzi è vivo.

Che questo approccio necessiti di una nuova classe dirigente è addirittura ovvio. Che si carichi sulle spalle i padri e i loro insegnamenti, senza alcuna furia iconoclasta. Con i piedi piantati nella storia e nella nostra tradizione. Ma che abbia il coraggio di parlare tenendo per mano i nostri figli, guardando al futuro con gli occhi dei nostri coetanei e di chi verrà. Perché se vogliamo cambiare, se vogliamo costruire un partito popolare, con basi di massa, con una forza e una capacità di incidere egemonicamente nella società e di governare per cambiare non possiamo presentarci mettendo insieme i gruppi dirigenti e gli intellettuali che hanno segnato le sconfitte dei diversi pezzi della sinistra radicale italiana. Serve molto di più. Vogliamo una Sinistra moderna e innovativa. E che per la prima volta, nell’esserlo, mantenga l’anima, la testa e il cuore.

Di questo, anche, dobbiamo iniziare a parlare dentro Sinistra Italiana.

 

 

 

Commenti

  • Giuseppe Maria Greco

    Il problema sta in quelli che chiami “i mantra: l’individualismo, il merito, la competitività, una certa grandeur nazionale in ambito internazionale.” Io apprezzo lo sforzo di Craxi,D’Alema ecc. di trovare nuove strade per un’Italia preda del passato. Craxi ad esempio ha tentato di rivoltare e di rinnovare il potere economico tradizionale. Peccato che abbia scelto un’idea di mercato che aveva come portabandiera un certo Berlusconi. D’Alema aveva ben ragione di scrollar di dosso dall’Italia il parassitismo e di introdurre il concetto di merito. Peccato che, come dici, l’abbia fatto senza far capire che la stessa parola “merito”, così come “competitività” ecc., non hanno nè la stessa storia nè lo stesso significato quando sia vista da destra o da sinistra. Non è stata cioè creata una cultura diversa capace di consentire a noi una scelta tra due visioni, non di subire un giudizio calato dall’alto a prescindere da chi si mette nelle vesti del potere. Non basta volersi “etici”. Il M5S ne è la dimostrazione. L’eticità non appartiene a nessuno perchè può essere nelle intenzioni e nelle regole che ne conseguono, ma poi deve nascere dai fatti, da quella solidarietà che si forma dal riconoscersi vicini nel desiderare insieme una stessa soluzione o nel trasformare una stessa cosa, L’etica non è una cosa che si inietta per sanare un corpo malato, ma è una conseguenza del “vedersi”.

  • Valter Moretti

    Come solito si fa della storia della sinistra come se GLI ALTRI non esistono. A volte si perde anche se si sta procedendo correttamente e senza errori. Gli elogi ed i riconoscimenti arrivano sempre dopo morti. La sinistra ha sbagliato molto meno di quello che si racconta.
    Oggi e’ vittima di una truffa politica ma resta viva anche se piu’ sommersa. Renzi ha interrotto il rinnovamento riportando indietro verso l’opinione conservatrice , indossando una mascherata di nuovismo vuoto.