Decreto lavoro: questo governo perde l’ennesima occasione per dare un segnale di cambiamento
Il governo e questa maggioranza stanno perdendo l’ennesima occasione per dare al Paese un vero segnale di cambiamento e la spinta necessaria per trascinare l’Italia fuori dalla crisi profonda che sta attraversando.Il decreto lavoro doveva e poteva rappresentare uno strumento fondamentale per segnare quel cambio di passo necessario al Paese per rimettere in moto l’economia, lo sviluppo, i consumi. Purtroppo ancora una volta, invece, si decide di proseguire nel solco di politiche fallimentari già viste, che hanno prodotto soltanto un abbassamento dei diritti, delle tutele dei lavoratori e della qualità del lavoro.
Invece di combattere la precarietà si è preferito aumentarla, anziché varare norme utili a creare nuovi posti di lavoro si è preferito liberalizzare i licenziamenti. Da trent’anni almeno si è scelto di impoverire, frammentare e precarizzare il lavoro, stimolando tra i lavoratori una concorrenza verso il basso, ai quali è stato imposto, pur di ottenere o mantenere un’occupazione, di rinunciare ai diritti più elementari, di rinunciare ad avere un progetto di vita, di rinunciare alla propria serenità nei luoghi di lavoro per vivere sotto la spada di Damocle di un rinnovo contrattuale che potrebbe anche non arrivare. Si è deciso di spostare sulla rendita e sulla finanza la ricchezza prodotta, abbiamo assistito al progressivo smantellamento dello Stato sociale a favore di una privatizzazione dei beni e dei servizi che hanno aumentato i livelli di povertà, le disuguaglianze e l’esclusione sociale.
La crisi economica e finanziaria ha inoltre concentrato il potere nelle mani di pochi, allargando la forbice tra una maggioranza sempre più povera e una minoranza sempre più ricca. Un vero e proprio stillicidio che ha stravolto l’Europa provocando oltre 26 milioni di disoccupati e 43 milioni di poveri.
Avremmo sinceramente voluto poter fare un intervento di tenore diverso. Ci avrebbe fatto piacere, almeno per una volta, fare un plauso al governo e poter dire che su un tema importante come il lavoro si è davvero cambiato verso, per usare un’espressione tanto cara al Presidente del Consiglio Renzi e invece dobbiamo costatare come le misure contenute nel presente decreto vadano ancora una volta nella direzione di una maggiore precarizzazione del mercato del lavoro. Gli interventi di “semplificazione” sul contratto a termine e sull’apprendistato non rispondono alle esigenze delle categorie che il governo ha detto di voler maggiormente rappresentare, come i giovani e i precari.
Per creare lavoro in Italia tutto serve tranne intervenire sulle regole del mercato del lavoro con l’intento di togliere ulteriori garanzie ai lavoratori. Le vere cause del dramma occupazionale che viviamo nel Paese con il 13% di disoccupazione e un giovane su due che non trova lavoro, cinque milioni di poveri, più di mezzo milione di lavoratrici e lavoratori che nel 2013 hanno vissuto di sola cassa integrazione, sono da ricercare nelle politiche di austerità messe in atto in questi anni e nelle sempre minori risorse destinate agli investimenti e allo sviluppo che hanno svilito le imprese, impoverito la popolazione e desertificato il sistema industriale.
Almeno dall’anno 2000 i contratti non a tempo indeterminato sono diventati un numero impressionante. Tutto si può dire tranne che in Italia non esista la flessibilità, in entrata e in uscita. Lo testimoniano le decine di forme contrattuali introdotte nelle precedenti riforme, dalla Sacconi alla Fornero, che hanno avuto come unico risultato la frammentazione del mondo del lavoro, un generale abbassamento delle tutele e dei diritti dei lavoratori e non hanno prodotto un solo posto di lavoro in più.
Già il governo Letta aveva provveduto a precarizzare ulteriormente i contratti flessibili e atipici trasformando la precarietà del lavoro in precarizzazione delle condizioni di vita. Quindi non si sentiva affatto l’esigenza dell’ennesimo intervento in tal senso.
Renzi a parole dice di voler combattere la precarietà ma nei fatti, con il presente decreto, consentirà alle imprese di poter assumere per 5 volte nell’arco di tre anni un lavoratore con un contratto a tempo determinato. Praticamente un periodo di prova lungo 3 anni in cui il datore di lavoro può licenziare senza pagare alcuna indennità, senza nessun preavviso e senza nessuna motivazione. Se poi incrociamo tale fattispecie con quella prevista nel job acts presentato al Senato del contratto a tutele progressive avremo un periodo di sei anni durante il quale il lavoratore sarà privato delle più elementari tutele. Quasi la metà dell’anzianità aziendale media che in Italia, è stimata in 15 anni. L’unica buona notizia è che il tanto atteso job acts non vedrà la luce prima del 2015. La cattiva è quella che con una mossa astuta all’interno dello stesso job acts è stato inserito anche il ddl sull’abrogazione dell’odiosa pratica delle ‘dimissioni in bianco’ che era già stato approvato dalla Camera. Si è scritta così l’ennesima pagina vergognosa ai danni dei diritti delle lavoratrici. Un vero e proprio colpo di mano che rimanda alle calende greche una misura di civiltà come l’abrogazione delle ‘dimissioni in bianco’.
L’eliminazione della causale dai contratti a termine estende il precariato a tutti i lavoratori, giovani e anziani, che troveranno o cambieranno lavoro. Il contratto a termine si potrà utilizzare sempre e per tutti, senza spiegare il perché, senza collegamenti ad esigenze temporanee e senza più distinzione tra un “primo” contratto a termine e le sue proroghe o rinnovi. Non è con la liberalizzazione dei contratti che risolveremo i problemi occupazionali in questo Paese. La disoccupazione non si combatte rendendo più semplici i licenziamenti.
Anche le modifiche dell’apprendistato rappresentano un vero e proprio ritorno indietro, uno svilimento della causa mista del rapporto di apprendistato che si incentra in maniera fondamentale sulla chiara condivisione del percorso formativo, del tempo da dedicarvi, dei suoi sbocchi e degli strumenti da utilizzare.
Per questi motivi crediamo che il decreto non risponda alle esigenze reali del Paese, delle imprese (che hanno tutto l’interesse a fidelizzare i propri dipendenti senza doverne sostituire uno ogni sei mesi) e dei lavoratori (per i quali si allargano soltanto gli orizzonti della precarietà e non quelli della piena occupazione) e andrebbe profondamente modificato nel suo impianto perché il tema oggi non è la sola riscrittura delle regole del mercato del lavoro ma come e quanto si investe in politiche industriali e in innovazione tecnologica per rimettere in moto l’economia e creare sviluppo. Il nostro Paese, che pur rimane il secondo Paese manifatturiero in Europa, ha visto maggiormente aggredito dalla crisi proprio questo settore perché si è scelto di competere sulla precarità, sulla riduzione del costo del lavoro, sulla contrazione dei diritti, sulle privatizzazioni come ricetta buona solo per fare cassa piuttosto che sulla ricerca, sullo sviluppo tecnologico, sulla valorizzazione delle nostre eccellenze. Bisogna affrontare finalmente il tema di un nuovo modello di produzione che sia compatibile con l’ambiente, che non aggredisca il territorio e non devasti le città. Bisogna affrontare il tema dell’efficientamento energetico e delle energie rinnovabili, delle infrastrutture, della salute e la cura della persona, della mobilità. Rimettere al centro la dignità delle persone che lavorano è la condizione da cui partire se si vuole davvero cambiare modello di sviluppo. Il nostro sistema industriale invece è già fortemente ridimensionato e marginale nel mercato globale e per questo servono interventi shock in economia in grado di imprimere una vera svolta.
Quando cominceremo a discutere ad esempio di mobilità sostenibile e di polo nazionale dei trasporti che rimetta al centro il tema del trasporto pubblico e della mobilità delle persone e delle merci, per offrire una possibilità di rilancio ad un pezzo importante della nostra industria oggi in sofferenza e messa in liquidazione. Penso ad Ansaldobreda, Ansaldo Sts, Bredamenarinibus, Irisbus. Alle autostrade del mare e al futuro di Fincantieri.
Quando decideremo di investire veramente sulle energie alternative puntando al risparmio, all’efficienza, alla tutela dell’ambiente, ad un utilizzo intelligente delle fonti rinnovabili.
Per quanto tempo ancora dovremo discutere di banda larga e di informatizzazione della pubblica amministrazione prima che diventi una realtà, rimettendoci al passo con il resto d’Europa.
Quanto dovremo aspettare prima che vi rendiate conto della necessità di un intervento pubblico e di grandi investimenti per riqualificare e rilanciare l’elettrodomestico, la siderurgia, l’elettronica, affinchè producano senza inquinare e i loro prodotti siano competitivi sul mercato, innovativi ed ecocompatibili.
Quanti altri disastri ambientali dovremo attendere prima che si ragioni su un piano straordinario contro il dissesto idrogeologico e per la messa in sicurezza degli uffici pubblici, delle scuole, degli ospedali, del nostro patrimonio storico. Insomma più che un decreto lavoro serviva un piano straordinario del lavoro e per il lavoro in grado di garantire buona occupazione, lavoro per le imprese e per i cittadini, rilancio dell’economia, un reddito minimo per chi rimane fuori dal mercato del lavoro come strumento di lotta alla povertà e alla precarietà. Dovevano essere queste le priorità del governo ma nel decreto in esame oggi non c’è traccia di tutto questo.
In questa fase nel Paese c’è una grande attesa e tanto consenso attorno alla figura di Matteo Renzi e del suo governo e da lui la gente, quella che non ce la fa più ad andare avanti e si fa in quattro per arrivare a fine mese si attende dei risultati e un cambiamento vero. Rappresenta la novità rispetto a quella politica che ha allontanato i cittadini dalle istituzioni. Incarna quel sentimento popolare che si ribella al disastro sociale di questi ultimi venti anni e intende riformare il sistema. Con questa novità e queste aspettative vogliamo aprire un confronto. Per questo non saremo di certo noi a giudicare negativamente la restituzione di 80 euro al mese nelle buste paga dei lavoratori che guadagnano meno di 25.000 euro all’anno, l’aumento della tassazione delle rendite finanziarie, la riduzione dell’Irap, il ripristino della decontribuzione dei contratti di solidarietà, il pagamento dei debiti alle imprese che lavorano con la pubblica amministrazione. Anzi, diciamo: “Finalmente!”.
Erano anni che aspettavamo e chiedevamo misure in tal senso. Ma con lo stesso senso di responsabilità con il quale riconosciamo la bontà di alcuni provvedimenti, abbiamo il dovere di dire al governo che se non si tiene conto che i pensionati e la maggior parte dei precari sta sotto i 25.000 euro e che i salari italiani sono tra i più bassi d’Europa si rischia di vanificare tutto. E se a questo aggiungiamo l’ulteriore liberalizzazione dei contratti a termine e dell’apprendistato che il governo vuole farci approvare attraverso questo decreto, ci rendiamo conto di come il cambiamento tanto auspicato rischia di riportarci su una strada vecchia e sbagliata, quella che continua a far pesare la crisi sulle spalle dei più deboli, di quelli che già tanto hanno dato, salvaguardando ancora una volta quel 10% che detiene ancora oggi oltre la metà della ricchezza di questo Paese. Così facendo il governo dimostra di non volersi discostare da quelle politiche che hanno provocato l’impoverimento del Paese e determinato la crisi finanziaria che stiamo vivendo, limitandosi, se va bene, a porre qualche piccolo e insufficiente correttivo alle politiche di austerity che abbiamo subito in questi anni.