Domande sotto l’ombrellone di ferragosto
I giornali attorno a ferragosto hanno il problema non da poco di riempire le pagine. Se non c’è un Kappler che evade dal Celio raggomitolato nella valigia trasportata dalla teutonica consorte o un fatto di cronaca nera che racchiude dentro un tranquillo palazzo borghese un dedalo di misteri, di cosa possono mai scrivere per scalfire il torpore del vacanziere impomatato di creme solari sotto l’ombrellone? Ogni anno è così. Ma non quest’anno.
Giusto un secolo fa la cronaca dominante era quella della grande guerra appena scoppiata e che, secondo tutti gli analisti, i diplomatici, i politologi, gli elzeviristi, insomma la classe dirigente dell’epoca, si sarebbe conclusa di lì a poco, già con il cadere delle foglie d’autunno. Previsioni smentite da 37 milioni di morti in più di quattro anni di un conflitto che ha distrutto tutti gli imperi e la geografia politica di allora e che si è concluso creando le premesse di una crisi economica epocale che ha aperto le porte ad un’altra guerra planetaria, 71 milioni di morti.
Oggi la cronaca del ferragosto trasuda di economia e descrive, in fondo, un’altra guerra, quella sociale di un intero continente. “Ora tutta l’Europa è in frenata”, così il Corriere della Sera. Veniamo informati della Germania che rallenta, della BCE che chiede (a chi?, come?, quando?) “cambiamenti strutturali”, della Francia che vuole meno vincoli europei. E dell’Italia che attraverso il suo cinetico presidente di consiglio si frega le mani compiaciuto dei mali altrui come se non ci riguardassero, noi messi peggio da sempre. Ognuno è statista a suo modo, e per chi presiede il semestre europeo, cioè ha la guida politica di tutti i paesi, è una bella prova di solidarietà comunitaria. Al momento opportuno, c’è da scommettere, gli altri paesi se ne ricorderanno. I giornali ci forniscono dei dati, e li ringraziamo. Ma vorremmo delle analisi, vorremmo un barlume di idea, uno squarcio di inchiesta, un abbozzo di approfondimento, qualcosa che ci aiutasse a mettere un punto fermo sulle domande che sempre di più ci facciamo.
Perché l’Europa è l’unica area del mondo globalizzato ad essere dentro una recessione che non vede fine? Perché l’America, là dove tutto è cominciato, ne è fuori e noi qui torniamo ad ogni semestre sempre più indietro? Perché le politiche di austerità proseguono alla stessa maniera di prima se si sono dimostrate fallimentari? Perché anni di “riforme” pretese dalle oligarchie finanziarie, imposte dalle autorità comunitarie ai governi e da queste ai popoli, perché non hanno prodotto un solo grammo di crescita in più? E poi, perché non parliamo mai di “quale” crescita serve davvero per lasciarci alle spalle recessione attuale e depressione imminente? Un po’ di inflazione sarebbe benefica, costituirebbe il segno di una ripresa della domanda. Ma fin qui l’unica inflazione che tocca l’Europa, i suoi decisori, le sue classi dirigenti, sembra essere quella del vocabolario con cui si scrive, dall’inizio della crisi, il nuovo dizionario dei luoghi comuni del nostro tempo.
Prendiamo la parola “investimenti”. Guida la hit parade dei vocaboli inflazionati. Tutti la evocano, la richiedono. Ma chi li deve fare? E dove vanno fatti, in quali settori decisivi per una duratura “qualità” della crescita? Le analisi vere, le risposte vere, è raro trovarle, e non solo a ferragosto. La crisi dell’Europa è sempre di più la crisi delle sue classi dirigenti mosse da inettitudine e ignavia. E’ questo, a ben vedere, il primo problema politico dell’Europa di fronte alla crisi, alla realtà del suo triste presente e alla possibilità del suo incerto futuro. La qualità di una classe dirigente non si misura con il cronometro della velocità, ma con il coraggio dei fatti compiuti. Fa bene Renzi a dire che “riparte l’Italia se riparte il sud”. Ma visto che evita di proposito d’incontrare Vendola, faccia una cosa. Quando gli capita d’incrociare Olli Rehn, fino a pochi giorni fa commissario europeo per gli affari economici, provi a chiedergli qual è l’unica realtà del sud virtuosa (per esempio sulla capacità di spesa dei fondi comunitari, insieme alla piccola Basilicata) in fatto di economia? “La Puglia”, si sentirà rispondere. Scoprirà così, dalle parole del noto bolscevico finlandese, che abbiamo anche noi il nostro “orecchino” all’occhiello di cui andare a testa alta.