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Martedì, 1 aprile 2014

E adesso, sciogliamo anche l’Istat?

astolfo

C’è da pensare che siamo un paese proprio strano. Viviamo da schizofrenici, se l’Istat ancora oggi ci dice che la disoccupazione italiana è al 13%, mai così alta da quasi quarant’anni, e Renzi ancora ieri ci dice che incontra per strada gente che gli chiede di abolire il Senato. Si vede che i disoccupati restano tutto il giorno chiusi in casa e si perdono l’occasione, scendendo un attimo di sotto, d’incontrare il premier o anche la Boschi, e dire loro qualcosa di diverso su quel che ci sarebbe da fare.

Siamo ormai arrivati a 3,3 milioni di gente che non ha lavoro, come Cipro, come la Grecia, il 42% di questi disoccupati è un giovane. Ci sarà pure un papà, una mamma che, incontrando Renzi per il corso principale, gli faccia presente il problema. Che gli dica ad esempio: “Caro il nostro Matteo, mio figlio Arturo ha 26 anni, una laurea specialistica con il massimo dei voti che ci è costata l’intera liquidazione e adesso sta sopra, a casa, non scende più. Sono sceso io per dirle che mio figlio, non avendo un reddito, a maggio non vedrà neppure gli 80 euro che gentilmente lei ha promesso. Che gli dico, da parte sua, tra poco quando risalgo?”.

Invece Matteo incontra tutt’altra gente, che al mercato rionale (mentre è intenta a risparmiare sul pesciolino che non può più permettersi) gli si rivolge press’a poco così: “Mi dica, premier, che ne sarà del Senato? In famiglia non dormiamo di notte all’idea che continui ad essere elettivo e che voti anche la fiducia, questa poi. Mi raccomando: non ceda di un millimetro sulla seconda lettura.” Meglio pensare che tutto questo non sia vero, che Renzi stia conducendo da qualche settimana la sua azione di governo con un obiettivo preciso: avere più voti di Grillo alle europee e alle amministrative. Ha ereditato un partito che, dal bersaniano “ci vuole un po’ più di lavoro” fino alla carica dei 101 che ha visto Prodi presidente della Repubblica in pectore mentre saliva sulla predellina dell’aereo in Mali e rottamato ancor prima che il bimotore sorvolasse la Ciociaria, fa di tutto per portare Grillo alla vittoria. Lo stesso Renzi sta dando un considerevole contributo: il voltafaccia sugli F35, il decreto sul lavoro che fa rimpiangere la Fornero in fatto di sottrazione dei diritti, il capolavoro di Cottarelli sulla pubblica amministrazione. E siamo appena agli inizi.

Avrebbe potuto fare una cosa semplice, forse troppo semplice e sensata, prevista per di più dal programma del suo stesso partito alle ultime elezioni: dimezzare il numero dei parlamentari della Camera, quelli del Senato, mutando di questa assemblea elettiva, prevista in tutte le democrazie del mondo, le funzioni affinché non siano ripetitive. E il risparmio, di tempo e non solo di danaro, si sarebbe materializzato. Senza bisogno di iperbole del tipo “O così o me ne vado”. E invece insegue Grillo sul suo stesso terreno, finendo per essere futurista nel linguaggio e conservatore nel merito – su cui quasi mai ci si sofferma – di quelle che si ostina a chiamare “riforme”. Perché c’è poco da fare e da dire: l’insieme tra modifiche istituzionali e legge elettorale che vuole portare a casa minacciando il diluvio dopo di lui se non succede è, né più né meno, la filosofia berlusconiana di quel cambiamento degli assetti dello Stato italiano che tiene insieme la revisione della Costituzione e la restrizione della rappresentanza. Stupisce che il suo partito sia fermo nelle ginocchia e si lasci dire nella riunione della direzione che lui, il segretario, “parla agli italiani” e non al partito. Al Senato Renzi parla agli italiani e non al Senato, al partito parla agli italiani e non al partito, al consiglio dei ministri parla agli italiani e non ai ministri, in televisione parla agli italiani e non agli interlocutori che ha davanti.

Come vogliamo chiamare tutto questo? Di certo non è una innovazione, poiché l’abbiamo già visto, per esempio con Craxi e con Berlusconi, e ne conosciamo i risultati. Ma anche quando si volesse parlare direttamente e continuamente agli italiani, c’è un preciso argomento che li angoscia e non è né il ruolo del Senato né l’algoritmo dell’Italicum. E’ quello che ci dice ancora oggi, appunto, l’Istat: il lavoro è l’angoscia di questo Paese. E sul lavoro Renzi, finora, ha giocato tre carte. Quella del Jobs Act, dove c’è tutto quello che si dovrebbe fare per riportare la gente ad avere un lavoro. Solo che manca ancora, del Jobs Act, proprio il Jobs Act. Poi il decreto del suo ministro Poletti, che naturalmente è immodificabile “altrimenti me ne vado”. Decreto che fa propria la logica della flessibilità che diventa precarietà, contestata (anche lui un conservatore?) nella sua efficacia persino dal governatore della Banca d’Italia, ove non bastassero le statistiche europee a dimostrarlo.

Il lavoro, anche per questo governo, è un carciofo che lascia a terra le foglie dei suoi sempre più umiliati diritti e nel contempo i posti occupati si perdono, si perdono senza sosta. E infine il bonus degli 80 euro in busta paga promessi per maggio. Lodevole intenzione. Ma manca un mese, e a che punto siamo? Ce lo dice oggi il responsabile della Fondazione Studi Consulenti del Lavoro, Enzo De Fusco. Con queste parole: “Ovviamente in questo momento non se ne sa nulla. Al di là delle anticipazioni fatte dal governo, non c’è alcun provvedimento cogente da applicare e quindi brancoliamo nel buio.” E aggiunge: non si riesce a capire da quando partirà. Finché la politica sarà nelle mani di venditori il nostro bello e intristito Paese non cambierà. Oggi ad esempio ne abbiamo due e mezzo. Renzi, Grillo e, ormai a metà servizio, Silvio, il vero maestro dei primi due. Chissà che, certo dicendo agli italiani che lo fanno per risparmiare, non si mettano d’accordo per sciogliere, dopo la Costituzione, anche l’Istat.

 

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