Forza e limiti dell’ideologia della casta
Non si va molto lontani nell’affrontare la difficoltà della sinistra di alternativa a raccogliere il consenso del popolo, che volta finalmente le spalle a Renzi e al Pd, se la crescita del movimento che ha raccolto questo consenso, il Movimento 5 stelle, viene fatta oggetto, più che di analisi e di riflessione, di veri e propri esorcismi. Tali sono le liquidazioni della vera e propria insurrezione elettorale di Roma e di Milano sotto la categoria della «rivolta plebea» , o mettendo in uno stesso sacco, sotto la voce populismo i movimenti di rottura dei vecchi e insostenibili assetti politici che emergono in tutta Europa e non solo.
I populismi hanno in comune di aver costruito un campo in cui trovano posto e si unificano le diverse insoddisfazioni verso lo stato di cose presente, nella società degli individui, che ha perso un fattore di riferimento, un tempo si sarebbe detto una classe sociale, che permetta di leggere in maniera unitaria le diverse contraddizioni che l’attraversano. La rivolta contro la casta è stato ed è il cemento unificante di populismi per altri aspetti molto diversi tra loro. La lotta contro la casta si è accompagnata in molti paesi al razzismo e alla xenofobia; altri hanno visto la casta come la interprete subalterna nei proprio paesi degli interessi di quell’1 per cento che domina l’economia mondo, e che in Europa si esprime nelle politiche di austherity monetarista.
Il movimento 5 stelle ha tenuto, nel bene e nel male, l’Italia lontano da questi due modelli. La denuncia del degrado della politica, della autoreferenzialità e della disonestà della casta è rimasto il momento pressoché esclusivo del suo messaggio, che gli ha permesso di tenere insieme spinte molto diverse tra loro. In ciò facilitato dalla evidente natura castale della Lega e della destra italiana e dai residui castali e dai personalismi che ancora attraversano il campo della sinistra alternativa in formazione. E ha dovuto confrontarsi con il nemico più pericoloso, il populismo di governo del premier Renzi, che a sua volta ha assunto la lotta alla vecchia politica da rottamare come il dato centrale della costruzione del suo consenso. Con un elemento comune e con una differenza non da poco. Il dato comune è una narrazione tutto sommato tranquillizzante della fase.
L’idea cioè che ridotti i costi della politica, della burocrazia, della intermediazione sociale, l’economia e la società possono ripartire senza toccare i meccanismi di fondo che la crisi hanno generata e gli stili di vita e le modalità di consumo dei cittadini. La differenza è che, mentre per Renzi questa riduzione avviene attraverso una contrazione degli spazi di democrazia, ridotta al puro momento elettorale, per i 5stelle – e questo è stato il cuore della loro campagna elettorale a Roma come a Torino – la riduzione della casta deve avvenire attraverso il potenziamento delle strumenti e delle forme della cittadinanza attiva, e costruendo regole che evitino il riformarsi del professionismo politico.
E hanno costruito per questo una organizzazione capillare di ascolto e di proposta che per anni ha battuto i luoghi abbandonati dalla sinistra, le periferie urbane, in cui hanno dovuto confrontarsi con la crescita delle disuguaglianze, del degrado ambientale, e con le persone che in maniera singola e associata per salvare il loro territorio stanno cambiando le loro stesse modalità di consumare, di lavorare, di vivere. E hanno collegato la loro azione puntuale sul territorio al rifiuto del jobs act, della buona scuola renziana, alla rivendicazione del reddito di cittadinanza.
La centralità dell’idea di cittadinanza, agita fra i più poveri e i più deboli, ha arricchito di un’attenzione nuova alle contraddizioni sociali e alle disuguaglianze il loro populismo originario. Il fatto stesso che nel formare le loro giunte abbiano attinto a persone non certo allineate col loro movimento, ma che hanno costruito la loro storia politica e professionale confrontandosi con questi temi, è il frutto di questa loro capacità di stare nel sociale e di viverne le contraddizioni.
So benissimo tutte le possibili obiezioni che si possono muovere a questa analisi ottimistica della possibile evoluzione del 5 stelle – i miti e i riti della Casaleggio e associati, il non aver sciolto le ambiguità della loro collocazione internazionale, il semplicismo di molte delle loro ricette economiche, e più grave di tutte le loro ambiguità, sui diritti dei migranti – ma credo che una sinistra che abbia come obiettivo primario, come ci ricorda Ada Colau, la ripoliticizzazione della società, perché nella società degli individui vincono sempre gli altri, debba considerare queste contraddizioni come più vitali e cariche di futuro di quelle che attraversano il campo del cosiddetto centro sinistra e del Pd.
Su queste contraddizioni bisogna lavorare, prendendo al meglio il loro messaggio, e non facendone una caricatura che rende più facili gli esorcismi. È quello che hanno fatto, con molta intelligenza politica, Montanari, Urbinati, Zagrebelsky e altri esponenti di Libertà e Giustiza nell’appello rivolto ai 5 stelle perché si impegnino in maniera ancora più convinta nella battaglia contro la riforma della Costituzione e l’Italicum. E di confermare per questa via la loro differenza dal populismo decisionista renziano, proprio nel momento in cui i sondaggi dicono che potrebbero essere proprio loro i professionisti della politica a cui il meccanismo perverso dell’Italicum potrebbe affidare la stanza dei bottoni da cui decidere sul nostro futuro.
Quanto al Pd «mai dire mai». Se Renzi perdesse il referendum dalla sua probabile dissoluzione potrebbero sprigionarsi forze, energie, intelligenze utili a ridefinire un progetto di economia e di società.
Ma quel che resta della sua sinistra politica deve avere chiaro che per poter esercitare un ruolo in questo senso ha un’unica possibilità. Quella di schierarsi da subito e senza ambiguità per il no alla riforma costituzionale. Altrimenti sia che Renzi perda o che Renzi vinca si confermerà la sua già palese irrilevanza.
Fonte il Manifesto