Gli sporchi affari dei petrolieri
Che le compagnie di estrazione di gas e petrolio, i “petrolieri”, fossero un settore industriale senza scrupoli si sa da sempre. Per i loro smodati appetiti si sono compiuti omicidi, pensiamo al caso Mattei, si fanno le guerre, in Iraq e in Libia ad esempio, si condizionano governi, per il nostro Paese basta citare il decreto Sblocca Italia e la “trivellopoli lucana”.
In Italia, grazie a governi e ministeri compiacenti e ad una informazione asservita o, peggio, prezzolata, i nostri petrolieri hanno sempre agito impunemente, ma oggi si scoprono gli altarini grazie alla mobilitazione in favore del Sì al referendum contro le trivelle nel mare.
Le piattaforme oggetto del referendum non sono un settore strategico per l’Italia
Il 73% delle piattaforme entro le 12 miglia dalle coste sono già da rottamare. Sono non operative, non eroganti o erogano così poco da non versare neppure un centesimo di royalties nelle casse pubbliche.
È ora di smantellare strutture vecchie che hanno palesemente esaurito il loro ciclo di produzione e che devono essere rimosse prima che il mare e la ruggine provochino cedimenti nella struttura, con il rischio di causare disastri ambientali.
Delle 88 strutture entro le 12 miglia, che fanno capo a 31 concessioni di coltivazione degli idrocarburi, 42 hanno più di 30 anni. Ciò significa che esse sono state costruite prima dell’entrata in vigore, nel 1986, della legge n. 349, che ha introdotto nel nostro ordinamento la Valutazione di Impatto Ambientale.
Delle 88 piattaforme operanti entro le 12 miglia, ben 35 non sono di fatto in funzione: 6 risultano “non operative”, 28 sono classificate come “non eroganti”, mentre un’altra risulta essere di supporto a piattaforme “non eroganti”. Dunque, il 40% di queste piattaforme resta in mezzo al mare solo per fare ruggine.
Ci sono poi altre 29 piattaforme che sono considerate “eroganti” ma che in realtà da anni producono così poco da rimanere costantemente sotto la franchigia, cioè sotto la soglia di produzione (pari a 50 mila tonnellate per il petrolio, 80 milioni di metri cubi standard per il gas) che esenta i petrolieri dal pagamento delle royalties. In altre parole, quasi un terzo delle piattaforme entro le 12 miglia produce al di sotto dei limiti della franchigia (in alcuni casi da oltre 10 anni) e quindi non versa neanche un centesimo di royalties alle casse pubbliche.
Solo 24 piattaforme operano abitualmente estraendo idrocarburi al di sopra della franchigia: rappresentano appena il 27 per cento delle piattaforme entro le 12 miglia.
Le piattaforme marine inquinano impunemente da anni e senza controlli
Nel corso del programma televisivo ‘Piazza Pulita’, andato in onda in data 11 aprile 2016 sulla rete televisiva ‘La7’, è stato trasmesso un contributo video tratto dal documentario d’inchiesta “Italian Offshore”, che mostra come dalla piattaforma Basil vengano scaricati in mare, alla profondità di 19 metri, acque di produzione.
Le piattaforme marine Basil e Brenda, costruite rispettivamente nel 1983 e nel 1987 ed attive nell’estrazione di gas, sono due piattaforme ENI situate a 25 km della costa adriatica, collegate alla centrale di Fano (PU).
Nel documentario vengono citati dati inediti del Ministero dell’Ambiente secondo i quali, nel corso dell’anno 2015, la piattaforma Brenda avrebbe scaricato in mare 54 milioni di litri di rifiuti industriali;
Viene inoltre citato il dato relativo alle 36 piattaforme Eni sparse nel Mar Adriatico, le quali, solo nel corso dell’anno 2014, avrebbero sversato in mare complessivamente “1,2 miliardi di litri di acque di produzione, che possono contenere metalli pesanti, idrocarburi e persino materiale radioattivo”.
Le cozze pescate sotto le piattaforme marine sono contaminate
Alcuni dei sostenitori della campagna mediatica contro il Referendum sulle trivelle sono arrivati a sostenere che l’impatto ambientale delle piattaforme sia minimo e hanno citato come esempio la produzione di cozze sotto le piattaforme. Da più di vent’anni le cozze presenti sulle piattaforme vengono regolarmente raccolte da alcune cooperative romagnole di pescatori e successivamente commercializzate. Queste cozze coprirebbero il 5 per cento della produzione annuale della Regione Emilia Romagna. Solo nel 2014 sarebbero stati immessi sul mercato italiano 7 mila quintali di cozze “da piattaforma”.
Lo scorso marzo Greenpeace ha pubblicato i dati – prodotti da ISPRA su committenza di ENI – sulla contaminazione ambientale in campioni di cozze raccolti intorno a piattaforme offshore localizzate in Adriatico e di proprietà della stessa ENI.
I dati raccolti da ISPRA per conto di ENI documentano la presenza di sostanze pericolose nelle cozze raccolte su 19 piattaforme operanti lungo le coste romagnole: metalli pesanti (mercurio, cadmio, piombo e arsenico), benzene e altri idrocarburi policiclici aromatici. Sostanze come il cadmio e il benzene sono inserite nel gruppo 1 dello IARC (l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro delle Nazioni Unite), ovvero tra le sostanze il cui effetto cancerogeno sull’uomo è certo.
Greenpeace ha chiesto all’ARPA Emilia Romagna quali garanzie esistano sull’assenza di contaminazione nelle cozze “da piattaforma” immesse in commercio.