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Giovedì, 15 ottobre 2015

Hackerare il canone Rai – Riformare il modello di finanziamento del servizio pubblico dei media attraverso il crowfunding civico

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Uno studio su una riforma in senso partecipativo del canone Rai.
La notizia di questi giorni è che il governo di Renzi vuole mettere mano a una delle tasse più odiate dagli italiani. Il canone Rai. La proposta di Renzi è un po’ populista (“pagherete meno”), perché prevede l’abbassamento del canone Rai (uno dei più bassi d’Europa, va detto) da 113,5 a 100 euro (anche se un anno fa Renzi parlava di portarlo a 60 euro) e tecnicamente complessa, nonché quasi inedita.

Pagare il canone tramite bolletta elettrica, come propone il governo, comporta una serie di potenziali ineguaglianze e introduce un modello quasi in disuso nel resto d’Europa. Forse, invece di trovare soluzioni populiste e tecnicamente ingiuste o in disuso, basterebbe prima studiare cosa fanno i paesi virtuosi e come hanno fatto ad abbattere l’evasione, che in Italia è al 27% e costa alla Rai circa 500 milioni (Rai, 2014).

Esistono già molte alternative sperimentate al canone attuale, molto più efficienti ed egalitarie del pagamento in bolletta. Il tema del canone e del finanziamento del servizio pubblico dei media in un contesto di concorrenza e altamente digitalizzato è molto discusso tra gli studiosi di media europei, ultimamente. Anche noi abbiamo voluto partecipare a questa discussione, con la proposta di un modello completamente nuovo.

 

Insieme a Ivana Pais, sociologa della Cattolica di Milano, abbiamo lavorato nell’ultimo anno alla messa a punto di un modello alternativo di finanziamento del canone, che prevede non l’abolizione, ma l’integrazione del canone con le pratiche del crowdfunding civico.

Tra poco vi descriverò i risultati (chi è curioso può andare direttamente qui) di questa ricerca, ma prima, per chi ne fosse a digiuno, apriamo una breve parentesi preliminare su quali sono i modelli attuali di finanziamento del servizio pubblico dei media e he differenze ci sono tra paese e paese. Chi già le conosce, salti pure alla sezione successiva.

 

Modelli di finanziamento del servizio pubblico

Il servizio pubblico dei media prevede, nel mondo, almeno quattro tipi diversi di finanziamento o modelli che adottano uno o più tipi contemporaneamente.

I PSM (i media di servizio pubblico) sono finanziati tramite:

  • canone
  • fondi statali
  • pubblicità
  • donazioni private

In Italia finora vige un sistema misto di finanziamento: canone e pubblicità. Il canone, evaso dal 27% degli italiani, assicura alla Rai entrate per 1,75 miliardi (fonte: Bilancio Rai 2014). La pubblicità invece fa entrare circa 597 milioni di euro.

Come funziona invece negli altri paesi?

Nel Regno Unito la BBC è finanziata solo dal canone (170 euro), che si paga in tutti quei luoghi dove viene visto, in diretta o registrandolo, un programma prodotto da BBC attraverso tv, radio, tv satellitare o digitale terrestre, via cavo o internet. Non è richiesta la licenza se si usa il televisore per guardare dvd o giocare con videogiochi o se i programmi sono visti soltanto on demand su Internet attraverso l’iPlayer, dopo la messa in onda.

Il budget da canone della BBC si aggira intorno ai 4,8 miliardi di euro. Alla radio (nazionali e locali) va il 16% di questa cifra (contro il 6% della Rai).

In Germania, dal 2013, il canone è un contributo mensile di 17,98 euro, pagato quadrimestralmente, per un totale di 215 euro l’anno. Lo pagano tutte le case e tutti i privati, a prescindere dall’uso o meno di apparecchi riceventi. Il budget a disposizione del servizio pubblico tedesco è uno dei più ricchi al mondo, con 7,6 miliardi di euro provenienti dalla riscossione del canone (contro 1,76 miliardi di euro dell’Italia).

Le diverse aziende di servizio pubblico regionale tedesche sono finanziate non solo dal canone, ma anche da una bassa quota di pubblicità e da fondi statali.

In Francia dal 2009 la televisione pubblica non può più trasmettere pubblicità dopo le 8 di sera. Il canone attualmente ammonta a 136 euro ed è pagato come una tassa locale.

La Finlandia nel 2013 ha sostituito il canone con una tassa progressiva sul reddito, che va dai 50 ai 140 euro, da pagare con la dichiarazione dei redditi.

In Spagna il canone non esiste e il servizio pubblico viene finanziato solo con fondi statali.

 

In Svizzera costa 385 euro, in Danimarca 323 euro, in Norvegia 317 euro e in Svezia 235 euro, ma nei paesi scandinavi la pubblicità non è ammessa. In tutti questi casi il canone è, come nel Regno Unito, una tassa sul possesso e uso di apparecchi di ricezione.

In Olanda il canone è stato abolito nel 2000 e ora il servizio pubblico è finanziato da fondi statali e pubblicità (ridotta però a un tetto massimo del 10% del palinsesto su base annua).

Gli unici paesi al mondo dove il canone si paga nella bolletta elettrica, come vorrebbe la riforma di Renzi, sono la Grecia, il Portogallo e la Turchia, non grandi esempi di servizio pubblico per qualità ed autonomia.

In Grecia è una tassa indiretta, ma obbligatoria, di circa 55 euro. Circola la barzelletta che in Grecia anche i morti pagano il canone, perché anche i cimiteri contribuiscono con le loro bollette elettriche.

In Portogallo il canone è stato sostituito con una tassa di 31,8 euro annui, pagati in bolletta ogni mese (2,65 euro + 6% di iva).

In Turchia si dà al servizio pubblico nazionale il 2% della propria bolletta elettrica più una tassa una tantum al momento dell’acquisto di un apparecchio ricevente. Il governo turco però sta pensando di abolire la tassa e finanziare TRT solo tramite fondi statali.

Soltanto negli Stati Uniti il servizio pubblico non prende soldi né dallo stato né dai cittadini. La PBS e la NPR ricevono donazioni private da cittadini e fondazioni e possono accettare sponsor per i propri programmi.

 

Se il canone ha resistito fino a noi per 91 anni nella maggior parte dei paesi europei, forse una ragione c’è. Il canone, secondo i maggiori studiosi di media pubblici europei e secondo anche il parere della EBU (l’associazione che riunisce tutti i media pubblici nel mondo) rappresenta il modello che garantisce la maggiore autonomia del servizio pubblico dalle ingerenze dello stato e del mercato. I fondi statali sono sempre soldi che arrivano dalle tasse pagate dai cittadini, ma, a differenza del canone, che garantisce delle entrate stabili nel tempo, possono fluttuare in base a crisi economiche e cambi di governo, così come fluttuano le entrate pubblicitarie, anche esse esposte ai cicli di crisi economica, oltre che alla frammentazione delle audience e alla competizione crescente degli agglomerati mediali globali.

Come si vede dalla tabella qui di seguito (fonti: EBU 2014 e BBC 2013), nei paesi dove le entrate da canone sono largamente maggioritarie (dove quindi il servizio pubblico è meno esposto agli interessi politici e degli investitori pubblicitari) la qualità dell’offerta mediale percepita dai suoi cittadini è maggiore dei paesi dove fondi statali o pubblicità incidono molto sul bilancio. I paesi più dipendenti da canone e percepiti più di qualità sono anche quei paesi dove il tasso di evasione è più basso rispetto all’Italia (a parte la Francia e il Portogallo, dove è impossibile evadere).

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Però c’è un problema. Nonostante il canone sia per il servizio pubblico il miglior modello possibile, rappresenta, in molti paesi europei, una delle tasse più odiate o, perlomeno, anche in paesi più virtuosi come il Regno Unito, molto discusse. Il canone così come è stato concepito – un contributo sul possesso di apparecchi riceventi – è uno strumento datato. In molti si domandano perché, se non usufruiscono dei contenuti della Rai ma usano lo stesso la televisione, dovrebbero pagare il canone.

 

Altri si domandano perché, se la Rai riceve soldi dalla pubblicità, deve essere finanziata anche dai cittadini. Il canone è nato in un ecosistema mediale analogico e lontanissimo dal panorama attuale. Quando è nato i media che potevamo consumare erano sotto il monopolio degli stati europei e questi ultimi, per rendere sostenibile la produzione di contenuti in regime di monopolio, hanno pensato al canone come modello di finanziamento.

 

Ma a partire dagli anni settanta-ottanta e novanta, con il crollo dei monopoli sulla comunicazione di massa, il servizio pubblico si è trovato di fronte alla competizione con altri attori e ha giustificato il canone con la promessa di un’offerta diversa e complementare a quella delle aziende orientate al profitto.

 

Ma oggi, in un momento storico in cui il servizio pubblico si confronta con una competizione serrata e con una frammentazione dell’attenzione degli spettatori che ha generato un arretramento costante dello share del servizio pubblico in tutta Europa, è legittimo chiedersi se ha ancora senso pagare il canone o farlo in questo modo.

 

Negli ultimi dieci anni molti governi europei hanno affrontato il tema e hanno sperimentato nuove soluzioni. Le opzioni su tavolo sono al momento tre: 1) abolizione completa e sostituzione con fondi statali (ma abbiamo già detto i problemi di questa soluzione); 2) estensione del canone ai device digitali e 3) trasformazione del canone in una tassa obbligatoria per tutti, come ha fatto la Germania, o progressiva sul reddito, come in Finlandia, che garantisca al servizio pubblico la certezza di poter continuare a produrre contenuti mediali per un pubblico di cittadini e non solo di consumatori.

 

La quarta soluzione, quella renziana di trasformarlo in una tassa da riscuotere in bolletta, non la prenderei nemmeno in considerazione, visto che è adottata da tre paesi (Portogallo, Grecia e Turchia) dove il servizio pubblico non brilla per qualità e autonomia, e prevede una serie di potenziali disuguaglianze, come per esempio il fatto che chi non ha un televisore ma ha un contratto di fornitura elettrica sarà costretto a pagare una tassa per un servizio di cui non gode.

 

Quello che però queste opzioni finora sperimentate dai governi non tengono in considerazione è che il pubblico, i cittadini, non vogliono più semplicemente pagare in massa per un servizio che gli dica cosa devono guardare e cosa devono ascoltare.

 

Nessuno di questi modelli prevede un ruolo decisionale per i propri cittadini, nemmeno in forma di delega. I cittadini non hanno alcun potere su chi viene eletto nei consigli di amministrazione delle aziende di servizio pubblico, né possono decidere in alcun modo cosa è meglio produrre, né possono partecipare in qualche modo alla produzione dei programmi. A loro viene solo richiesto di pagare per qualcosa che non sono più disposti ad apprezzare in massa.

 

La svolta partecipativa nei media

 

Con il web 2.0 e la diffusione dei social media, si è diffusa anche la pratica dei contenuti generati dagli utenti. Da quando è diventato molto semplice e accessibile scattare una foto o girare un video o fare una cronaca in diretta di un evento su Twitter con il proprio telefonino ogni spettatore è anche potenzialmente un produttore.

 

L’attentato terroristico nella metro di Londra del 7 luglio 2005 è considerato, da chi studia i media, il primo evento raccontato principalmente attraverso contenuti generati da persone non professioniste che si trovavano sul posto per caso e non inviate da media.

 

Negli ultimi dieci anni i media tradizionali hanno lentamente integrato il flusso di contenuti prodotti dai propri spettatori/lettori/ascoltatori all’interno delle proprie pratiche produttive, dando vita a piattaforme dedicate per la raccolta degli UGC (user generated content) ma i cittadini hanno poca voce per decidere come verranno usati i propri contenuti, e soprattutto non hanno nessun tipo di potere decisionale sulle scelte editoriali dei programmi del servizio pubblico da loro finanziato.

 

Pratiche come quelle che lo studioso dei media pubblici Karol Jakubowicz chiama “participatory programming” (programmazione partecipata), sono praticamente assenti nei media pubblici. Come ricorda Jakubowicz, “la programmazione partecipata significa anche la possibilità di mettere in discussione o giudicare collettivamente la politica editoriale del servizio pubblico e la possibilità di aprire un dialogo tra il broadcaster e il pubblico intorno ad essa.

 

In Svezia, ad esempio, esiste un progetto del programma tv del servizio pubblico Aktuellt, che si chiama “Open Newsroom” (redazione aperta): la redazione pubblica online i video delle riunioni e le discussioni tra i giornalisti, appena pochi minuti dopo che sono accadute e le sottopone alla discussione del pubblico.

 

Secondo Nico Carpentier, uno dei più importanti studiosi di partecipazione nei media, esistono almeno due forme di partecipazione: la prima, quella legata alla produzione di contenuti UGC, è di natura più blanda, la seconda, quella “strutturale”, ha invece a che fare con la partecipazione al processo decisionale dell’organizzazione mediale.

 

Secondo Carpentier c’è partecipazione ai media da parte del pubblico solo se a quest’ultimo viene riconosciuto un certo potere decisionale sui contenuti che dovrebbero essere prodotti e sui soldi che dovrebbero essere spesi. Per Carpentier, la parola chiave di un processo di partecipazione è il “potere”: potere di decidere cosa produrre e come, e potere di decidere come dovrebbe funzionare l’azienda di servizio pubblico.

 

Se negli ultimi dieci anni le aziende di servizio pubblico si sono aperte alla partecipazione dei cittadini incorporando i contenuti da loro generati, non c’è ancora quasi alcuna traccia di un’apertura alla partecipazione dei cittadini ai processi decisionali sia editoriali che economici.

 

Uno dei più noti studiosi dei media tedesco, Hans Kleinsteuber, già nel 2008 aveva chiesto che le riunioni dei consigli di amministrazione delle aziende di servizio pubblico tedesche fossero tenute in spazi pubblici accessibili ai cittadini e fossero poi dispinibili online.

 

Una piena partecipazione dei cittadini al funzionamento dei media pubblici dovrebbe includere pratiche di partecipazione “strutturale”. Il diritto a prendere decisioni su temi pubblici e a partecipare al dibattito pubblico rappresentano, secondo lo studioso dei media inglese Graham Murdock, la base dei diritti culturali dei cittadini, che un servizio pubblico dovrebbe avere il dovere di alimentare.

 

Il nostro modello di riforma del finanziamento del servizio pubblico è figlio di questa prospettiva e si inquadra dentro questa tradizione di studi sulle forme di partecipazione ai media.

 

Con Ivana Pais, abbiamo ipotizzato un nuovo modello di finanziamento alternativo a quelli esistenti, che permetta maggiore partecipazione strutturale dei cittadini all’interno della politica economica ed editorial dei PSM. La nostra ipotesi è che maggiore partecipazione ai processi decisionali produca anche maggiore coinvolgimento dei cittadini alle sorti del servizio pubblico e possa stimolare una maggiore cura di un bene comune come la produzione pubblica dei media.

 

Maggiore coinvolgimento e maggiore cura significano anche, nelle nostre ipotesi, maggiore comprensione delle ragioni che giustificano il pagamento del canone, un aumento di responsabilità verso di esso e una maggiore disponibilità a pagarlo.

 

La nostra proposta prevede l’integrazione del canone con i meccanismi del crowdfunding digitale e si inserisce all’interno di quelle forme di crowdfunding orientate all’impatto sociale, che Ridgway chiama “crowdfunding the commons” (2015) e all’interno dei quelle forme di bilancio partecipativo che oggi vanno sotto l’etichetta del civic crowdfunding. Sebbene la nostra proposta sia indirizzata soltanto alla riforma della licence fee per i PSM, il modello di funzionamento potrebbe essere applicato e sperimentato anche ad altre forme di media companies, come i media comunitari.

 

La nostra idea

La domanda di ricerca che ci siamo fatti è la seguente:

“È possibile riformare il canone Rai dando la possibilità ai cittadini di decidere su quali programmi investire una parte (poniamo il 20%) del costo del canone attraverso gli schemi del crowdfunding civico?

I cittadini come reagirebbero?

 

Descrizione del modello

 

Ai cittadini che pagheranno il canone online verrà chiesto se accettano di pagare 5 € in più per poter accedere a una piattaforma digitale dove scegliere i programmi su cui investire il 20% del canone (22,7 €, arrotondati a 20 €) ed ottenere delle ricompense in cambio. I 5 € in più richiesti serviranno a coprire i costi della piattaforma digitale, senza ulteriori spese per la Rai.

 

Una volta sulla piattaforma alle persone viene chiesto di scegliere dove investire i 20 € a disposizione. I programmi Tv e Radio prescelti per essere inseriti nella piattaforma di crowdfunding sono selezionati da una commissione di esperti che ogni anno selezionerà una lista di programmi che incarnano l’idea di servizio pubblico.

 

Il nostro modello è pensato come leva per riequilibrare il budget proveniente da canone verso quei programmi che fanno servizio pubblico. Abbiamo assunto che i programmi più popolari ma finanziati dalla pubblicità non hanno bisogno di ulteriore sostegno. Il modello potrebbe comunque essere applicato anche in versioni diverse, più aperte al resto del palinsesto.

Oltre ai programmi già esistenti le persone potranno scegliere di finanziare anche nuovi programmi tv, radio o web.

 

Le persone possono investire 1,5,10 o 20 € fino ad esaurimento del proprio fondo (20 €), oppure decidere di donare una cifra superiore a 20 euro a loro scelta. Ogni investimento prevede una ricompensa diversa:

 

1 €: ringraziamenti sul sito web del programma

 

5 €: ringraziamenti nei titoli di coda di un programma Tv o per la radio, ringraziamenti speciali dei conduttori ad un supporter diverso per ogni puntata

 

10 €: diventi membro della community del programma. Riceverai una newsletter per ogni puntata del programma, che include i link a tutti i contenuti e la possibilità di avere un canale privilegiato di comunicazione con la redazione.

 

20 €: sei un membro “gold” della community del programma. Riceverai, oltre alla ricompensa #3, una newsletter che chiede la tua opinione su contenuti e temi da affrontare, ospiti da invitare, commenti sulle passate puntate. Periodicamente, il programma sceglierà un membro di questa community e lo inviterà alla diretta o registrazione del programma e potrà partecipare ad una riunione di redazione.

 

Il Test

 

Abbiamo testato il modello su un campione di 639 cittadini italiani che hanno compilato un questionario online a risposte chiuse. 495 risposte su 639 sono state considerate complete e hanno formato il dataset finale. Il campione è stato pesato con le statistiche ISTAT della popolazione italiana che ha accesso e fa uso di Internet.

 

Il periodo di campionamento: 6 novembre 2014 – 31 gennaio 2015 (periodo in cui solitamente gli italiani sono chiamati a pagare il canone)

il questionario online  

la pagina Facebook per i commenti e le discussioni dei rispondenti

 Risultati

Tutti i risultati del nostro test sono accessibili qui: a questo link troverete la descrizione di tutti i dati raccolti. In questa sezione invece riassumeremo soltanto i dati principali e più significativi.

Il nostro campione, che tende a rappresentare, solo la popolazione degli utenti di Internet italiani, ha dimostrato, come ci si poteva aspettare una forte avversione al canone Rai. Soltanto il 18,4% è contento di pagare il canone nella modalità attuale. Il 22,9% sarebbe disposto a pagarlo ma solo se non ci fosse la pubblicità, mentre il 22,6% preferirebbe il sistema delle donazioni spontanee all’americana. Il 21,8% pare essere d’accordo con la proposta di Renzi di pagare il canone in bolletta, mentre una minoranza (14%) preferirebbe solo fondi statali.

Alla domanda “quanto saresti disposto a pagare per l’attuale offerta Rai?” l’83% del nostro campione ha risposto che vorrebbe pagare meno di quanto paga ora, il 10% è contento così com’è, e solo il 7% sarebbe disposto a pagare di più. Apparentemente questa risposta dà ragione alla scelta di Renzi, che intercetta la “pancia” e il portafogli degli italiani, ma, vedremo più avanti, questa è solo una mezza verità.

Questa bassa propensione ad accettare il costo del canone si spiega anche con la bassa stima dei cittadini nei confronti dell’offerta Rai. Alla richiesta di valutare da 0 a 10 la qualità dei contenuti prodotti da Rai, il nostro campione ha valutato molto negativamente la tv e modestamente la radio. Chi paga il canone valuta l’offerta televisiva vicina al 4 su 10 e quella radiofonica quasi sufficiente (5,9 su 10). Chi invece evade il canone valuta la tv pessima (2,9) e la radio modesta (5,61). La radio ne esce decisamente meglio, eppure assorbe solo tra il 6 e il 7% del totale delle entrate da canone.

Eppure, nonostante l’83% del campione vorrebbe pagare meno, una volta messo di fronte alla possibilità di decidere come utilizzare il 20% del proprio canone (20 euro), una maggioranza assoluta, il 70%, sarebbe disposto a pagare l’attuale canone e ad aggiungere 5 euro per avere accesso alla piattaforma di crowdfunding online.

Quelle stesse persone che un momento prima avevano affermato che il canone attuale è troppo alto, sarebbe disposte, in buona parte, a pagarlo così com’è e a spendere anche 5 euro in più per poter avere voce nel processo decisionale e scegliere su quali programmi indirizzare la propria quota.

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Questo dato dimostra quindi che le stesse persone che vorrebbero pagare meno per questa offerta mediale, sarebbero disposte a pagare di più per avere maggiore controllo. Cioè, le persone sono disposte a pagare per partecipare di più. Più partecipazione si traduce, come avevamo ipotizzato, in maggiore disponibilità a pagare il canone, perché a quel punto i cittadini si sentono più responsabili del bene pubblico, essendo stati chiamati a decidere anche loro dove destinare i loro soldi.

 

Chiaramente, questa disponibilità a pagare di più per avere più controllo varia in base ad alcuni fattori: innanzitutto varia con l’aumentare del reddito: tra chi ha dichiarato un reddito netto mensile tra i 2000 e i 2500 la disponibilità raggiunge l’81%, mentre tra chi ha dichiarato un reddito tra 500 e 1000 euro mensili la disponibilità è al 56%.

 

Oltre al reddito, la disponibilità varia anche in base alla provenienza geografica (il Centro-Sud è più disposto del Nord Italia a pagare più), al titolo di studio (i laureati sono leggermente più disposti a pagare dei diplomati), e al fatto che si paghi già il canone o che lo si evada. Tra gli evasori è significativo però che il 55% si è detto disponibile a pagarlo se avessero la possibilità di controllarne il 20%. Questo potrebbe significare un aumento di budget importante per il servizio pubblico e uno strumento efficace contro l’evasione. Di nuovo, maggiore apertura del servizio pubblico alla partecipazione dei suoi spettatori si traduce, apparentemente, anche in più responsabilità da parte dei cittadini.

 

Una maggiore disponibilità ad accettare questo modello di finanziamento si nota anche tra chi preferisce i canali tematici della Rai o Radio3.

 

Le immagini seguenti mostrano dove andrebbero i soldi di questo potenziale modello di crowdfunding:

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I programmi televisivi selezionati per essere inseriti nella piattaforma di crowdfunding in media riceverebbero 1,04 euro contro 0,68 della radio, dimostrando che i partecipanti sanno che produrre televisione costa più che produrre radio, ma allo stesso tempo, i programmi più premiati da questo modello si sono rivelati essere quei programmi che hanno già sviluppato nel tempo delle forti community di pubblico e che hanno un rapporto quasi “affettivo” coi propri spettatori/ascoltatori. Questo rapporto per esempio fa sì che un programma radiofonico come Caterpillar riceva più finanziamento di molti programmi televisivi che costano sicuramente di più.

 

Questi risultati confermano le dinamiche tipiche dei progetti di crowdfunding, dove la costruzione di una comunità di sostenitori appassionata è la chiave del successo di ogni campagna. Questo potrebbe stimolare i produttori di programmi del servizio pubblico a lavorare sulla relazione con la propria community in vista del round di crowdfunding.

Sulla base dei risultati ottenuti, abbiamo immaginato due scenari possibili: se il modello venisse applicato e al primo round di sperimentazione partecipassero almeno 100.000 persone, questo modello sposterebbe sui programmi selezionati 1,98 milioni di euro, che corrispondono allo 0,11% delle entrate da canone del bilancio Rai 2014.

 

Se invece si arrivasse, nei round successivi, a coinvolgere un milione di persone a prendere parte alla piattaforma di crowdfunding, si sposterebbero 19,8 milioni di euro, pari all’1,1% delle entrate da canone. Tutto sommato, tutta questa partecipazione, non sbilancerebbe in maniera significativa gli equilibri economici del servizio pubblico ma permetterebbe un sostanziale aumento di budget a disposizione per una serie di programmi di qualità e avvicinerebbe i cittadini a prendersi cura del servizio e sentirsi più coinvolti e più responsabili.

 

Il modello che abbiamo proposto, alla luce dei risultati ottenuti dal test, non è poi così radicale.

Ma anche se non venisse applicato, questo modello e il test effettuato dimostrano a livello teorico e pratico che le persone attribuiscono un valore significativo alla propria partecipazione: un modello di servizio pubblico chiuso a qualsiasi forma di partecipazione come quello attuale viene letteralmente “disprezzato” dai cittadini e percepito come troppo costoso, un modello dove “non si sa dove finiscono i soldi” (risposta di un partecipante al test nello spazio delle risposte aperte).

 

In un modello invece dove si dà spazio e potere decisionale al pubblico, il costo del canone non è più disprezzato ma considerato giusto. Addirittura, alla richiesta se con questo modello fosse stato disponibile a donare qualcosa in più oltre ai 20 euro compresi già nel canone, il nostro campione ha risposto in media che sarebbe stato disposto a donare 22,8 euro in più!

La partecipazione ha un valore economico che qui ci sembra di essere riusciti a dimostrare.

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Questa ricerca, nei modi in cui è stata condotta presenta dei limiti evidenti e offre spazio per ulteriori verifiche e ampliamenti. Innanzitutto è una ricerca di natura esplorativa: il campione di cittadini che hanno sperimentato il modello è troppo limitato. Inoltre, essendo una simulazione che non prevedeva l’uso di soldi reali, può contenere dei bias: i cittadini che hanno deciso di investire di più in documentari e giornalismo investigativo, potrebbero, alla prova dei fatti, compiere scelte diverse. Il nostro modello andrebbe testato realmente per analizzare lo scarto tra quello che hanno dichiarato nella simulazione e le scelte di investimento realmente compiute al momento dell’implementazione reale del modello. Quindi il modello andrebbe testato su un campione più ampio di cittadini che hanno potere di investimento su risorse reali.

 

Il modello però riserva anche molte prospettive future di ricerca: è pronto per essere sperimentato in altri paesi, da altri ricercatori, per poter effettuare analisi comparative sulle reazioni di cittadini appartenenti a paesi diversi sul piano culturale, economico e politico.

 

Una volta dimostrato, come abbiamo fatto, che i cittadini sono ben disposti verso forme di partecipazione strutturale ai processi decisionali dei PSM, alla co-gestione di una parte molto ridotta del budget dei PSM, il nostro modello, anche se non venisse implementato così come lo abbiamo progettato, potrebbe servire come punto di partenza per ulteriori sperimentazioni e modifiche del principio di fondo che lo ispira, cioè la modalità cooperativa peer-to-peer dell’allocazione di risorse pubbliche.

 

Il modello da noi progettato e testato rappresenta uno strumento di “civic empowerment”, ma allo stato attuale una sua potenziale applicazione comporterebbe anche il rischio di essere uno strumento di empowerment in mano a una elite (coloro in possesso di maggiori competenze in digital literacy e più abituati ad utilizzare le piattaforme digitali). Questo potrebbe avere come conseguenza una sovrarappresentazione dei gusti mediali delle classi egemoni e più alfabetizzate ai media digitali. Per questo prevediamo una sperimentazione del modello che si apra gradualmente, dopo continui processi di verifica e modifica, a più ampie porzioni di cittadini, fino a raggiungere il più alto numero possibile.

 

Crediamo che l’unica via per ovviare a questi rischi sia avviare forme di sperimentazione che permettano di far partire dei progetti pilota in tutta Europa, per poter correggere la rotta sulla base dei risultati della sperimentazione, in un continuo processo di fine-tuning, possibilmente guidato da team di ricerca accademici.

 

D’altro canto, crediamo che questo modello possa rappresentare per i PSM una grande opportunità per aprire la catena di produzione del valore ai propri cittadini e dimostrare di voler essere più vicino alle necessità dei propri stakeholders. È un modello con elevate possibilità di rischio ma allo stesso tempo anche di innovazione sociale.

 

Crediamo che il servizio pubblico abbia il compito di rischiare e farsi carico dell’innovazione (qui declinata in termini di nuovi modelli per la scelta di produzione di contenuti mediali) per generare un mercato dei media più innovativo e di qualità. Se i PSM migliorano la propria offerta è un bene per il mercato e per la società.

 

La presentazione grafica della ricerca e dei risultati si trova a questo link:

https://magic.piktochart.com/output/8430661-crowdfunding-public-service-media

 

Fonte Che Fare 

Commenti

  • http://detestor.blog.com/ Detestor

    Al di là della soluzione proposta, che trovo discutibile (a parole, nei sondaggi, tutti disponibili a pagare di più per “partecipare”, poi li voglio vedere al momento di mettere mano al portafoglio), a me pare evidente una cosa: in quasi tutti i paesi, il canone si paga più salato che da noi, eppure è meno evaso. Al solito, l’evasore italiano “chiagne e fotte”.