Houston, abbiamo un problema: Madia
«Non è detto. Non lo so, può anche darsi, ma non per forza». Questa sequela cartesiana di idee chiare e distinte appartiene a un ministro della Repubblica e sono pronunciate non sul come passare la serata (se in pizzeria o allo stadio o anche al cinema) ma a proposito dell’esercizio delle proprie funzioni di governo che sono, è bene a questo punto specificarlo, quelle di capo del dicastero della Pubblica Amministrazione. Lo riferisce un’agenzia dell’Ansa di poco fa citando la dichiarazione del ministro Madia. La sequela, tocca dirlo, non è di quelle che si mettono insieme con facilità. Inanellare una serie così in progress di incertezze, titubanze, indecisioni, indeterminatezze, esitazioni, tentennamenti, richiede studio, impegno sul pezzo. Ma se si considera qual è il pezzo in questione, cioè niente meno che la Riforma dello Stato e la necessità o meno di aprire su questo un tavolo di confronto con le categorie del pubblico impiego, si pone subito un duplice problema.
Uno della Madia verso Renzi. Cosa si dicono i due in Consiglio dei Ministri, lei nei panni di Amleto e lui di Zarathustra? Qualche giorno fa se n’è uscita sostenendo che i giornalisti avevano dato un’interpretazione distorta del “buon lavoro” fatto da Cottarelli sulla Pubblica Amministrazione, quello che comincia stabilendo che vi sono 85 mila esuberi da mettere alla porta. Adesso capiamo perché il Renzi, in fin dei conti un essere umano in carne ed ossa che avrà come tutti i suoi timori e i suoi tremori, schizza via verso la Merkel abbottonandosi il cappotto alla rovescia, come Chaplin nel Monello. Lui va lì, in Europa, nella tana del lupo, raduna tutto il suo coraggio per dire “sappiamo cosa fare” e a Roma un suo ministro, su una di quelle fondamentali riforme al mese con cui adesso si rivolta l’Italia come un calzino dice “non lo so”, “può anche darsi”, “non è detto”.
Ma c’è un secondo problema, forse più grande e serio. E’ quello che intercorre tra la Madia in questa fase della sua vita ancora in via di formazione politica e sindacale e le conoscenze di base che occorre possedere per essere a capo di quel ministero dove alcune espressioni come “confronto tra categorie”, “concertazione”, “tavolo con le parti sociali”, “incontro con i sindacati”, stanno lì ad indicare quale sia la qualità della democrazia nel nostro paese. Perché di fronte al grande tema della Riforma dello Stato, sia che essa riguardi dove tagliare o risparmiare, dove licenziare o assumere, dove investire o delocalizzare, il decisionismo del governo non può mai valere a scapito dell’informazione, dell’ascolto, del parere dei lavoratori in causa, tanto più quando la causa è il loro destino in quanto tali. Questo chiamasi ABC della politica. Non della vecchia, stantia, lenta, rituale politica che occorre mutare in fretta in queste sue forme divenute ormai ridicole.
Trattasi di quell’altra politica, sinonimo di parole come “partecipazione”, “democrazia”, “condivisione”. Aprire un “tavolo” è un lavoro politico artigiano che consiste nel predisporre un luogo attorno a cui riunirsi, per ascoltarsi, attraverso il confronto delle idee e, se necessario, il loro salutare conflitto, mettendoci il tempo utile. E dopo, solo dopo, decidere nell’interesse non di una parte ma di un altro concetto insito nell’ABC di questa singolare politica: quello di “bene comune”. Provi la Madia. Per il suo debutto nell’ABC della buona politica anche un fratino le potrà essere d’aiuto.