I fantasmi di Colonia
Donna bianca/uomo nero: un corto circuito. E all’improvviso i pezzi del puzzle si dispongono sulla scena, mettendo in luce e in controluce quanto sia decisiva, per salvarci da noi stessi, la partita che oggi si gioca sull’immigrazione. E quanto necessaria, per questo, sia la capacità di non farci travolgere dai fantasmi che la notte di Colonia ha suscitato, dalle ombre spettrali che si annidano nel’inconscio collettivo e possono travolgere ogni razionale consapevolezza. E possono ripetersi, all’improvviso, ovunque in Europa. Non ci sono risposte o ce ne sono sempre meno al dramma crudele delle vite migranti, vite che non valgono niente, che di nulla dispongono se non di se stesse, se il mare non le inghiotte. A questo non ci sono risposte mentre c’è invece e cresce la sensazione in Europa dell’invasione, dell’assedio, del pericolo. Latente per tutta una fase. Poi, come all’improvviso, oggi riempie la scena. A Colonia non hanno contato i fatti realmente accaduti, necessari per stabilire che cosa sia concretamente accaduto e fare luce su responsabilità personali, fattispecie di reato, numero dei reati. I fatti hanno continuato per giorni a essere incerti e indistinti, travolti e resi secondari dal fiume di parole mediatiche che l’immagine e l’immaginario della donna bianca aggredita dall’uomo nero ha suscitato e alimentato.
L’Europa in crisi rischia di precipitare di nuovo nella stretta fantasmatica del suo cuore di tenebra. Un cuore che ben conosciamo, che nell’immane lutto e nella vergogna del secondo dopo guerra venne reietto, costretto a nascondersi, e sembrava che si fosse dissolto davvero, fra le ventriloque chiacchiere intorno all’Europa come Venere e le note esaltanti del beethoveniano Inno alla gioia. Quasi l’illusione, quell’inno, di un orizzonte patriottico.
Ma il cuore di tenebra si è mantenuto invece vigile – tra le pieghe dell’indicibile – pronto oggi a dirsi in tutta la sua nefandezza e a riempire di nuovo di sé la scena pubblica.
Un esponente di Alternativa per la Germania, formazione di estrema destra in crescita nel Paese della Cancelliera, ha dichiarato che bisognerebbe tenere a bada i migranti con pugno di ferro, come la Germania nazista fece con gli ebrei. Può dirlo senza suscitare scandalo.
Sulla tragedia degli espulsi da ogni dove del mondo si va costruendo una performance europea dell’assuefazione al male che evoca i tempi più oscuri della nostra storia. La vergogna non c’è più, il lutto, quello, sì si è dissolto. E l’indignazione langue o è esangue manifestazione di gruppi ristretti.
La storia è storia. Tutto passa e nulla vale.
La coraggiosa decisione di fine agosto di Angela Merkel di aprire le porte ai profughi siriani, mossa politica che per un breve momento è sembrata avere la forza di aprire un diverso capitolo per affrontare lo snodo epocale della contemporaneità – questo è il carattere della migrazione oggi – ha invece suscitato forti e diffuse critiche interne ed esterne, a cominciare da quelle di Horst Schehofer, capo del governo bavarese e uno dei principali alleati della Cancelliera. Un’altra faccia della Germania si è messa in scena come all’improvviso, ma di essa esistevano da tempo i segnali e le tracce. La sicurezza interna della Germania è a rischio ha detto Scehofer e con lui molti altri, tra cui il sindaco di Monaco Dieter Reiter, che ha dichiarato che non ci sono più posti per i profughi, che bisogna darsi una regolata, e a seguire il vicepremier socialdemocratico Sigmar Gabriel e i ministro degli Esteri Frank-Walter Steinmeier. Entrambi hanno manifestato la loro contrarietà, temono divisioni in seno alla società tedesca. E ancora altri esponenti politici di rilievo, anche sulla scia delle osservazioni di un documento riservato dell’intelligence tedesca, di cui alcuni stralci erano stati già pubblicati da Die Welt il 25 ottobre del 2015.
L’allarme dei servizi di intelligence riguarda rischi di instabilità politica e di radicalizzazione che l’afflusso di oltre un milione di migranti dal mondo musulmano potrebbe comportare e già comporta nel Paese. Nesso tra l’arrivo dei profughi e i rischi di ogni genere, in primis il terrorismo, nonché, soprattutto viene sottolineato, la crescente insofferenza popolare verso scelte di apertura ai profughi che non sono capite, che sono vissute come imposte dalle élites politiche, sempre più lontane dai sentimenti popolari. Così lo stralcio su Die Welt.
Se non vivessimo la crisi dell’Europa che viviamo, la sua acutezza e pervasività, se l’Europa non ne fosse ormai soggiogata e il pensiero critico europeo non fosse diventato merce rara di luoghi rarefatti, se, soprattutto, la crisi non assumesse sempre più, nella diffusa percezione dei popoli europei, il carattere dell’invasione dei barbari, dell’assedio dell’alieno, della messa in discussione dei “nostri” valori, stili di vita, scurezze identitarie, la notte del Capodanno 2016 di Colonia non avrebbe assunto la dimensione fantasmatica che ha assunto, non avrebbe avuto l’impatto sull’immaginario che ha avuto né evocato, come è successo, gli ancestrali archetipi dell’appartenenza identitaria che discendono dal materno, e il corpo della madre assicura, suggellando, nei riti patriarcali, la discendenza dall’etnos.
Colonia sarebbe rientrata nella cronaca, che è quotidiana, dolorosa, insopportabile, ma purtroppo cronaca, della violenza maschile sulle donne. Perché l’attitudine predatoria e violenta degli uomini sulle donne continua a essere elemento della vita delle donne in tutto il mondo e l’Europa ne fa strettamente parte. Attitudine che nei nostri Paesi, a dispetto della fine o del declino del patriarcato, sopravvive nelle forme di un mondo maschile in crisi di identità. Libertà femminile, autonomia delle donne, un mondo di donne, che alimenta la frustrazione maschile, accende il desiderio di dominio sessuale, spinge alla violenza sul corpo femminile dalle molestie occasionali, al mobbing violento, allo stupro, all’uccisione.
La presenza nei Paesi europei di uomini di altre culture è crescente. Vengono da luoghi dove, sia pure ormai tra dinamiche di libertà di cui le donne sono spesso straordinarie protagoniste, la sottomissione femminile è tuttavia ancora il tratto dominate delle relazioni tra i sessi. Tutto questo ha mescolato le carte e i desideri maschili, alimentato nuove contraddizioni, fatto esplodere inedite tensioni identitarie da una parte e dall’altra. “Invasori” e “invasi”. Tutto questo mentre il dato strutturale del fenomeno migratorio, il nesso tra chi chiede aiuto e chi dà aiuto, perde sempre più anche in Europa il suo smalto umanitario, cioè l’aspetto che a lungo è sembrato essere l’eccellenza della politica europea, il segno distintivo della sua civiltà. Le ondate di fuggiaschi dai luoghi delle guerre e da quelli delle predatorie razzie che il capitalismo globale compie su larghissima scala, nel corso 2015 hanno mandato in tilt molti governi europei, dato forza alle destre razziste di ogni dove, piantato le premesse per un costante stato di emergenza, che lede in radice lo statuto della cittadinanza in tutti i suoi elementi costitutivi, a partire dalla cittadinanza di radice autoctona. Perché, scrive Giorgio Agamben, lo Stato di sicurezza- il Security State, per dirla con i politologi americani – comporta caratteristiche che devono, dovrebbero allarmarci.
Alimenta infatti uno stato di paura generalizzata, favorisce la depoliticizzazione dei cittadini, rinuncia a ogni certezza del diritto.
Gli agguati terroristici hanno fatto il resto in misura esponenziale, offrendo l’alibi al governo socialista francese di dichiarare guerra al Califfato, prendere misure estreme come la cancellazione in un batter d’occhio della seconda cittadinanza a chi si renda colpevole di atti di terrorismo, fare dell’eccezione e dell’emergenza la nuova base delle regole repubblicane.
La Francia non è la sola a camminare sul filo dello stato d’emergenza. Soprattutto non è la sola a decidere come vuole, optando per scelte estreme, come la dichiarazione di stato di guerra fatta da Hollande davanti ai due rami dell’Assemblea. Non c’è politicamente una risposta europea unitaria, ogni Stato fa per sé e crescono i muri, gli sbarramenti, le revoche unilaterali di Schengen. Orban si fa sentire con forza accresciuta. Da noi Salvini. Tornano i cordoni di polizia in assetto di vigilanza dura sui confini di passaggio interno all’Europa, che diventano di nuovo frontiere invalicabili. Un guaio per i tir e il business, si lamentano da noi sottosegretari e uomini d’affari, mentre migliaia di profughi mettono in gioco la propria vita in disperate imprese di fuga. Non hanno nulla da perdere, il loro statuto umano è ormai solo la vita che rimane: senza valore per nessuno, a disposizione del soggettivo coraggio di ognuno di andare, dipendendo solo dal caso, o, forse, spera chi tenta, da un benevolo ripensamento dell’ultima ora di qualche governo che riapre per un po’ le frontiere.
Deserto europeo. Gli impegni di un giorno, il giorno dopo non ci sono più. Così la Gran Bretagna di Cameron fa cadere gli impegni appena presi di offrire ospitalità ai minori non accompagnati, la Svezia passata a destra vuole espellere ottantamila profughi già accolti, vari governi vogliono espropriare i profughi dei beni in oro e moneta che sono riusciti a portar via nella fuga. La Danimarca, anche là il governo è in mano ai conservatori, ne ha già fatto un provvedimento di legge in base a cui tutto quello che un profugo possiede oltre 1.340 euro viene sequestrato dallo Stato in conto spese per l’accoglienza.
Vessazioni indegne che segnalano i gravi processi involutivi in atto. La tendenza alla chiusura è generale: dai governi di destra estrema, come l’Ungheria, all’Austria, la cui ministra degli Interni ha accusato la marina greca di non fare abbastanza per contrastare gli sbarchi. Così per la seconda volta in pochi mesi e certo non per caso, la Grecia è al centro delle contraddizioni e delle debolezze del vecchio continente. Crisi dei debiti sovrani e crisi dei migranti stano a testimoniare la misura del fallimento dell’Europa dei Trattati.
I fatti di Colonia segnano un passaggio da tenere bene a mente perché hanno messo in moto a ondate successive l’immaginario dell’invasione, segnando un punto di rottura. Se a novembre– nota sul numero del 16 gennaio di Pagina 99 Helena Janeczek, il nemico era ancora – a livello di paura e allarme – il terrorista, un gruppo di terroristi, i jihadisti cresciuti in Europa o gli emissari del Califfato, oggi il nemico è una intera cultura, un etnos patriarcale che insidia le “nostre” donne, la nostra identità, la nostra comune appartenenza. Si fa così erba comune di tutti i maschi dei paesi islamici, profughi o no, musulmani miti o musulmani radicalizzati, jihadisti fanatizzati e ragazzi allo sbaraglio, in Paesi che non conoscono o conoscono ancora poco. E, conquistati dalla sbornia, da maschi quali sono, allungano le mani come fanno molti maschi di qualsiasi latitudine. Il che, ci dicono le cronache, è prassi ricorrente nei raduni di baldoria di molte città. Nella notte di Capodanno è successo in città di dodici dei sedici land tedeschi.
Per questo, poiché viviamo una crisi che mille cose alimentano ormai da molto tempo e che ha raggiunto livelli esplosivi, proprio sul terreno del rapporto con l’altro – il migrante, il profugo, il richiedente asilo – e con ciò che temiamo l’altro trascini con sé – l’insicurezza, l’invasione, la complicità o almeno la simpatia sentimentale col terrorista – Colonia è sintomo di qualcosa che si è rotto e si sta rompendo a ondate successive in tutta Europa.
Non sarà facile. Salvarci significa oggi una strenua battaglia culturale: combattere la colonizzazione delle menti, decostruire, nel discorso pubblico, la lunga tradizione colonialista dell’oggettivazione e sub umanizzazione dell’altro da noi e gli esiti di catastrofe storica che quella cultura ha avuto nella modernità europea, nell’intreccio col fascismo e il nazismo.
E significa, soprattutto, mettere in gioco con determinazione femminile il punto di vista femminista sull’aggressività sessista degli uomini, la loro misoginia, il loro immaginario possessivo nei confronti delle “nostre” donne. Il maschilismo violento esiste ovunque, non ci sono giardini dell’Eden da nessuna parte, e in nome delle donne gli Stati non devono sentirsi autorizzati a proclamare stati di emergenza e compiere atti che vadano nella direzione di restringere diritti e libertà. La libertà ci riguarda in prima persona. Ne siamo state protagoniste e vogliamo continuare a esserlo.