Il controgolpe golpista in Turchia
Il fallito golpe ordito dai militari turchi contrari al regime – kemalisti e gulenisti – ha offerto a Erdogan l’occasione per la stretta autoritaria che gli serviva e i cui segnali erano evidenti da tempo, soprattutto dopo la sua annunciata decisione di far votare in Parlamento una legge costituzionale di modifica in senso presidenziale dell’ordinamento. La paura per le proprie sorti è forse il motivo di quel golpe raffazzonato che una parte delle Forze armate ha tentato, mentre altre si sono dissociate o tenute lontano. A Erdogan il fallito colpo di Stato, di cui con tutta evidenza era stato informato da qualche personaggio o struttura di intelligence vicina all’esercito, si è rivelato provvidenziale. Infatti, senza più remore e impedimenti dell’opinione pubblica a lui ostile o non simpatizzante, cioè la metà degli elettori che sono andati al voto, Erdogan può gestire col terrore il dopo golpe in modo del tutto funzionale ai suoi progetti di dominus del Paese – Sultano, dice lui – consolidando in primis i legami anche “sentimentali” col suo popolo, quello che ha risposto subito all’appello, e ora gira per le città inneggiando al suo nome in nome della democrazia. Parola ormai priva di qualsiasi significato congruo, che non sia quello etimologico di “potere del popolo”, popolo che è sempre parte di un popolo ovviamente, e così inteso assume invece un valore totalizzante e una vocazione totalitaria. Cioè semplicemente la negazione della democrazia.
Le donne di cultura laica, che in Turchia non sono poche, soprattutto tra i ranghi della borghesia colta e cosmopolita, come sempre avviene quando la storia è investita da crisi del tipo che viviamo, temono ora che la prossima mossa di Erdogan, nel dopo golpe, sarà l’imposizione del velo, la cui diffusione crescente tra i ceti popolari è un segno dei tempi, e “quel” popolo, comprese moltissime donne, spesso velatissime per scelta ideolgica-religiosa, non si aspetta altro che il rigore fondamentalista dell’ortodossia venga applicato a ogni aspetto della vita pubblica e privata.
Ma Erdogan oggi si trova anche legittimato nelle sue nuove strategie di politica estera, che rompono l’accerchiamento occidentale di critiche, diffidenze, sospetti – soprattutto quelli riguardanti i suoi rapporti non del tutto soltanto strumentali col Califfato – e lui audacemente ha capovolto tattiche, alleanze, obiettivi rispetto a poco tempo fa. Un altro ruolo, un altro spazio. Una scommessa insomma.
Intanto continua a correre voce che dietro al fallito golpe in Turchia ci sia stata la longa manus degli Stati Uniti. Ci sono indubbiamente indizi che vanno in questa direzione, ma nessuna certezza. Ma se non ci sono certezze su questo, c’è la certezza assoluta che proprio il nuovo corso di politica estera intrapreso da Erdogan, allarmi gli Stati uniti. Perché si fonda sull’inedito avvicinamento della Turchia, Paese Nato, a Putin (si sono riappacificati per l’abbattimento di un aereo russo da parte dei turchi e ci sarà un incontro a Mosca in agosto) nonché sulla disponibilità turca a trovare una soluzione al problema siriano che sia favorevole ad Assad, come vuole Putin, e a condividere con Mosca le eventuali soluzioni per l’intero quadro regionale. Penetrazione turca in Asia, da sempre un asse geopolitico di Erdogan. Quindi analizzare gli indizi può far capire meglio il contesto generale. C’è, tra gli indizi, l’accoglienza che da vent’anni gli Stati Uniti offrono al nemico storico – una volta grande amico – di Erdogan, cioè Fethullah Galen, il magnate predicatore di ispirazione mistica sufi, e politologo, con larghissimo seguito in Turchia, negli ambienti intellettuali turchi ma non solo turchi, e di notevole peso negli affari, nel sistema bancario e finanziario turco e globale.
Secondo un sondaggio promosso on-line dalla rivista Foreign Policy, il successo riscosso da Gulen conferma la sua forte influenza sull’opinione pubblica a livello mondiale. Infatti è amico di Papi e Cardinali, oltre che di intellettuali e generali. Gulen si è allontanato col tempo da Erdogan, affermando oggi di credere “nella scienza, nel dialogo interreligioso, in una democrazia multipartitica”, mentre Erdogan è sempre più orientato all’ortodossia in senso islamista e ideologico. Gulen tra l’altro, anche stando lontano dal suo Paese, attraverso la sua potente confraternita musulmana che opera a tutto raggio in Turchia, gode di una grande popolarità tra il “suo” popolo, che non è esattamente lo stesso di quello di Erdogan. Devoto ma non fondamentalista.
Gulen,ormai auto esiliato in Pensylvania, mantiene ovviamente un occhio vigile sulle vicende del suo Paese, sull’evoluzione del quadro politico oltre che sui suoi affari. E’ sua in Turchia la potente confraternita musulmana, di cui sopra e grazie alla quale ha guadagnato credibilità presso un numero enorme di musulmani devoti, costruendo scuole e università, controllando giornali e favorendo l’inserimento dei suoi sostenitori – un movimento crescente – nei gangli della magistratura,dell’istruzione pubblica e privata, dell’informazione, delle Forze armate. Non a caso la parte della società oggi sotto tiro dal contro-golpe di Erdogan, oltre quella dei militari kemalisti, è proprio quella dei militari gulenisti, dei professori a tutti i livelli, dei giudci, dei giornalisti.
L’operazione di epurazione è cominciata in realtà da tempo, sia pure, fino a ieri, in forme meno efficaci, anche perché la magistratura con le sue sentenze a beneficio degli accusati ha spesso contraddetto le decisione di Erdogan. Si spiega così lo spionaggio e la repressione strisciante già in atto da parecchi mesi contro queste categorie di cittadini.
La vicenda turca, in tutti i suoi risvolti di politica interna ed estera ben mette in scena il caos endemico che domina la politica turca, riverberandosi in tutto il Medio Oriente e oltre. L’avvento di Erdogan al potere politico fu reso possibile proprio dalla santa alleanza tra lui e Gulen. Fu questa alleanza che permise di sbaragliare l’élite militare kemalista e di affermare il potere dello stesso Erdogan. In seguito tuttavia è maturato un dissidio mortale di tipo ideologico politico e religioso tra i due. Non a caso oggi Erdogan chiede all’Amministrazione statunitense – che ritiene l’ ispiratrice, con Gulen, del golpe militare – l’estradizione in patria dello stesso Gulen.
Ma soprattutto occorre avere chiari gli interessi strategici degli Stati uniti nell’intera zona mediorientale. C’è l’appartenenza della Turchia alla Nato e c’è la base americana in territorio Turco. Ci sono i fortissimi legami degli Usa con l’Arabia Saudita, cioè con la potenza regionale che oggi Erdogan ha messo nella lista dei suoi nemici o rivali.
L’unico elemento concreto di cui Erdogan dispone per accusare gli Usa, è il fatto che dalla base americana Incirlik proviene una serie di tracce radar che collegano la base stessa alla rotta dei caccia golpisti. In altre parole questo dice che qualche aereo, almeno uno, un aereo cisterna, è decollato nelle ore del golpe per rifornire in i caccia responsabili delle bombe sganciate sui palazzi del potere. E poi, come altro indizio rivelatore, c’è il lungo silenzio che le cancellerie occidentali, Washington in testa, hanno mantenuto per ore di fronte all’iniziativa di colpo di Stato. Insomma aspettavano/speravano che il golpe riuscisse e solo dopo hanno deciso di imboccare le strada delle congratulazioni a Erdogan per lo scampato pericolo. Sempre a difesa delle istituzioni democratiche, hanno esternato, con una doppia mossa di ipocrisia di Stato: nel merito delle loro reali attese e nel merito del concetto di democrazia, che è arrivato a livello della sua mortifera negazione.
Che poi Erdogan si aspettasse la mossa golpista lo dice soprattutto la minuziosa preparazione allestita per controbattere a tutti i livelli il tentato colpo di Stato. Dall’appello al popolo, subito lanciato per telefonino, dall’aereo della fuga simulata, alle tantissime liste di proscrizione già minuziosamente compilate, all’epurazione massiccia dei suoi nemici o non simpatizzanti dai ruoli ricoperti nei ranghi pubblici, nonché il divieto di uscire dal Paese imposto a tutti i dipendenti pubblici e agli studenti.
La storia recente, tutto l’occidente compreso, è dominata da un caos ormai sistemico, che trova momentanee risposte, destinate però a restare senza futuro, soltanto in giochi tattici che servono a dirimere qualche urgenza mentre accumulano nuove contraddizioni. Governance del caos e tra le faglie del caos prende corpo oggi e si rafforza, forse solo momentaneamente, ma intanto si rafforza l’utopia ottomana di Erdogan, la sua ambizione di diventare il dominus del Medio Oriente, il nuovo Sultano per davvero, sfruttando freneticamente i benefici del contro golpe, in compagnia di un popolo segnato ormai marcatamente dall’ ideologia radicale di appartenenza religiosa. Uomini spesso giovani con la barba lunga e donne vestite di nero da capo a piedi, che gridano nelle piazze di aver salvato la democrazia. Il caos delle scelte guida Erdogan in tutte le direzioni, fuori e dentro il suo Paese. Prima una mossa e poi il contrario di quella mossa. Una storia mediorientale poco conosciuta in Occidente e in quell’Europa che si affida ciecamente a un vergognoso accordo con Ankara per sbolognare i profughi e poi chissà. Storia complicata e, per come appare a chi non se ne occupa con particolare attenzione, indecifrabile, annota Alberto Negri, che di quei mondi è un attento conoscitore, su Sole 24 Ore. La parabola della Turchia negli ultimi decenni e il cambio di strategia di Erdogan dicono questo. Oggi con Putin e con Damasco, Erdogan non si fida più della Nato degli Usa dell’Ue. Vuole contare e per questo cambia il gioco e sceglie altri assi nella manica. Si vedrà. Quel che rimane certo e che riassetti, alleanze, tentativi di incontri ormai falliscono o risolvono solo aspetti secondari dei problemi.
Si può chiamare effetto performativo del caos geopolitico ormai dominante, soprattutto dopo le imprese di tipo neocoloniale di cui l’Occidente si è reso responsabile negli ultimi decenni, e soprattutto nel nuovo millennio, dopo il fatale 11 settembre. Effetto che è la governance del caos, tramite modalità caotiche. Oppure, crudamente, la scelta più congrua oggi agita dalle grandi potenze per mantenere le proprie rendite di posizione.
Il cambio della guardia tentato in Turchia, soprattutto per essere un’iniziativa delle Forze armate, ricorda il golpe militare con cui in Egitto il generale Al Sisi ha fatto fuori il governo di Morsi, espressione della Fratellanza musulmana egiziana. Azione golpista che ha fatto fare un sospiro di sollievo – anche questa volta in nome della democrazia – alle cancellerie occidentali e ai governi di qua. In Turchia la cosa è andata diversamente, rimane Erdogan con posizioni ideologico –religiose sempre più radicali e con giravolte di politica estera temibili. Ma occorre far buon viso a cattiva sorte. Sempre in nome della democrazia, per non confessare al “popolo democratico” che tutto è lecito, per ragion di Stato e soprattutto per affari di Stato.