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Martedì, 4 marzo 2014

Il coraggio che Renzi non ha

astolfo

Puntare dritto sull’edilizia scolastica è una grande e giusta idea. Una grande idea concreta e simbolica insieme. Simbolica per l’evidente motivo che partire di lì nel risanamento del paese è come dire: pensiamo finalmente al futuro, usciamo dall’angoscia di questo eterno presente e mettiamo al centro dei nostri pensieri i ragazzi.

Se avranno scuole sicure, scuole belle, scuole pulite sarà la qualità dello studio e tutta la loro formazione a trarne profitto. E in più se sin da piccoli, in quella particolare e decisiva età aurorale della vita nella quale si definiscono le mappe emotive e cognitive di ciascuno, vivranno attorniati dalla bellezza quotidiana dei luoghi e degli ambienti, una volta diventati grandi saranno giustamente esigenti verso un paesaggio, una periferia urbana, un quartiere di città. E concreta per l’altro evidente motivo che dedicarsi a risanare le attuali condizioni, generalmente disastrose, delle condizioni edilizie delle scuole italiana significa compiere un primo passo verso quell’economia reale ferma da anni e sostituita nel frattempo dall’economia di carta della finanza speculativa. Che, come sappiamo, non produce un solo posto di lavoro in più, anzi ne cancella di esistenti, e però ha il potere di rovesciare tutti gli equilibri sociali, portando diseguaglianza e povertà là dove prima sussisteva un relativo benessere.

Economia reale dunque al posto di quella virtuale, economia per la quale, certo, all’inizio devi spendere, investire, ma che ti ripaga col sul moltiplicatore sociale, perché se spendi uno ti ritrovi poi sempre due. Mettere come priorità l’edilizia scolastica vuol dire anche un’altra cosa: chiuderla con la mistica delle Grandi Opere Nazionali e fare di tante piccole opere locali che riguardano appunto le scuole come il territorio e il paesaggio il fulcro di un’opera grande per i cittadini e il paese. Dunque la lettera che Renzi invia ai sindaci in qualità di Presidente del Consiglio (pur rivolgendosi a loro con il suadente “caro collega”) per farsi segnalare gli edifici più bisognosi d’intervento può essere considerata una mossa giusta. Ma una mossa verso dove, esattamente?

Facciamo una bella cosa, depuriamo questa lettera e altre lettere (quella dell’altro ieri a Saviano sulla corruzione, ad esempio, parola di cui non si riscontra traccia nel discorso a braccio del Senato) di tutto quell’apparato tecnico e propagandistico, da permanente campagna elettorale, che riguarda l’astuzia comunicativa del personaggio, il suo fiutare come pochi l’aria che tira, l’impressionante abilità nel giocare d’anticipo e mai in piccolo. Dell’energia che emana, della velocità che imprime, del volare in politica proprio là dove osano le aquile.

Quest’apparato “retorico” ormai lo sappiamo bene, è sempre più tutt’uno con l’idea delegante della politica come comando, finalizzata esclusivamente al consenso, gramscianamente passivo, s’intende. Mettiamo pure da parte questo aspetto, portato talmente ad un livello di perfezione da Berlusconi da non essere in pari misura riproducibile, neppure da Renzi, e concentriamoci sulla domanda che riguarda il merito di quella lettera ai sindaci, come riguarda l’imminente capitolo del jobs act. La mossa è giusta, ma come la si realizza?

Il punto debole, debolissimo, di Renzi e dell’intero suo governo, sta precisamente qui. Può far piacere ad un sindaco, specie di uno sperduto e abbandonato paesino, ricevere la letterina del Presidente del Consiglio, fino a qualche giorno prima sindaco anch’egli, che dà il senso di una vicinanza, di una collaborazione possibile per portare a soluzione il problema della scuola del paese che sta cadendo a pezzi. Ma quel sindaco, abituato a rispondere direttamente (a “metterci la faccia”, direbbe Renzi) ai propri cittadini che conosce ad uno ad uno, vorrebbe che insieme alla retorica del “caro collega” vi fosse la precisione numerica di una cifra, di un tempo prestabilito, di un impegno preciso e certo. Non è così. Non è così per l’edilizia scolastica, non è così per il job act che si deve occupare a giorni di nuovi posti di lavoro, di creare occupazione, di sviluppare investimenti produttivi, eppure non dice una parola che sia una sull’origine vera della mancanza da anni, in Italia, di una politica industriale senza la quale, come si è fatto notare da più parti, il testo renziano sarà destinato a restare tale, carta su carta.

Lo si è capito con chiarezza da una pur lunga intervista di Giuliano Poletti, neoministro del Lavoro. Uomo di forte concretezza ed esperienza, ma che al dunque rinvia, rimanda, posticipa. Nell’intervista non si vede, non si può vedere, ma il ministro sembra come nell’atto di allargare le braccia romagnole. E perché questo accade, perché non si è levata finora né da Renzi né da alcuno dei suoi ministri una parola chiara sulle risorse da mettere a disposizione di idee e progetti così rutilanti? Perché Renzi è sbruffone e capeggia una manica d’incapaci? Non lo pensiamo affatto, e anzi accompagniamo la nostra critica sul merito delle questioni al rispetto verso donne e uomini di governo alla prese, comunque sia, con una sfida gigantesca.

Quel che invece pensiamo è che il nodo, il nodo che non si vuole sciogliere e attraversare, ma semplicemente ripetere come con Letta, come con Monti, (aggiungendovi in più una torsione comunicativa e mediatica squisitamente berlusconiana), è tutto e solo di natura politica. E’ di natura politica la riduzione delle spese militari, come lo è quella patrimoniale che adesso invoca per paesi nelle condizioni come il nostro persino la Bundesbank. Ma se non si passa prima di tutto di qui, cosa resta per l’attuazione di “una riforma al mese” se non praticare la stessa via di Letta e Monti? Svendita dei beni pubblici, tagli di altre spese vive, liberalizzazione dei contratti di lavoro, ulteriore intervento sulle pensioni, come non fosse già passata la Fornero. Non c’è proprio nessuna “terza via” all’orizzonte per Renzi, questa la realtà.

Ci sono due strade possibili. La prima la stiamo praticando da anni e il bicchiere, per noi, è sempre mezzo vuoto. La seconda comporta il coraggio di un abbandono (delle politiche di austerità, sventurate sino al punto di produrre fors’anche la crescita ma senza alcuna nuova occupazione) e quello di un’inversione forte e rapida di rotta, qui e in Europa. Ma questo è proprio quel tipo di coraggio che uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare…