Il nuovo ruolo di SEL nel rilancio delle politiche di sviluppo
Pascal citava spesso l’eloquenza del silenzio, una condizione del tutto inusuale nell’era della comunicazione tout court. Colpisce dunque anche me quello inusuale, sottolineato da Macrì, intorno alle nomine delle aziende partecipate dallo Stato. Se escludiamo le aziende strategiche nei settori energetici, si è trattato infatti di un intollerabile trionfo degli interessi lobbistici, fatto apparire ai cittadini come riconoscimento meritocratico di eccellenti capacità manageriali. Del resto, se vogliamo che tutto rimanga com’è – è noto dai tempi del Gattopardo – bisogna che tutto cambi, apparentemente.
Come vicepresidente della Commissione Lavori pubblici del Senato, sono intervenuto sulla vicenda dell’amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato, Moretti, che, per giustificare la pretesa di mantenere uno stipendio stratosferico, affermava che ogni euro da lui risparmiato fosse andato a vantaggio del contribuente. La realtà è ben diversa: Moretti si è occupato principalmente di alta velocità, rendendo il sistema ferroviario italiano uno dei peggiori dell’Occidente. Eppure è stato premiato dal Governo con il nuovo incarico in Finmeccanica, seppur rappresentante di gruppi europei quali Union Internationale des Chemins de Fer, ltalian Egyptian Business Council ed altri, piuttosto incoerenti con i suoi trascorsi nella Cgil Trasporti.
Tuttavia un segnale positivo importante in questo quadro, anch’esso di debole interesse mediatico, c’è stato, ed è dato dagli impegni che la Commissione Industria del Senato ha indicato al Governo con la risoluzione presentata dal presidente Mucchetti, votata anche da SEL, che enuncia testualmente che l’eventuale rinnovo dell’incarico ai capi azienda uscenti deve essere subordinato alla valutazione dei risultati della loro gestione. Eni, Enel, Terna e Finmeccanica rischierebbero perciò di aprire le porte al merito, se non fosse per alcune opacità sui criteri di verifica dei risultati di fine incarico. Risultati particolarmente attesi da tutti, visti anche i dati preoccupanti diffusi in questi giorni dalla Corte dei Conti sulle oltre 7.500 partecipate e municipalizzate, per le quali lo Stato spenderebbe 26 miliardi l’anno, senza però preoccuparsi di saldare i debiti con le aziende proprie creditrici, spesso costrette a dichiarare fallimento.
In questa stagione di riforme annunciate, anche in Campidoglio, nel piano di rientro triennale, vengono promessi tagli alle partecipate, in una spending review da 440 milioni: alienazioni, fusioni, accorpamenti, liquidazione di partecipazioni, come nel caso dell’Ama, che ne possiede nove in altre società, o dell’Atac, che scende a cinque. Anche su questo fronte – “Roma non si vende” è stata una delle nostre battaglie più significative, contro la delibera di Alemanno, collegata al bilancio 2012, che prevedeva la cessione del 21% di Acea – con SEL abbiamo dedicato cospicue energie. Io stesso di recente sono intervenuto sul tema, quando in Commissione Bilancio del Senato è stato approvato l’emendamento al decreto Salva-Roma a firma di Linda Lanzillotta di Scelta civica, ex assessore di rutelliana memoria già distintasi nella vicenda scellerata della privatizzazione della Centrale del Latte di Roma. Con quell’emendamento – fortunatamente sventato – il Comune di Roma avrebbe dovuto dismettere ulteriori quote di società quotate in Borsa (le aziende municipalizzate, Acea in primis), limitandosi a mantenere la quota di controllo: un vero e proprio scempio in spregio alla chiara volontà di tanti cittadini espressa col referendum sull’acqua pubblica.
Evidentemente è in corso un tentativo a mosaico di smantellamento del controllo dello Stato, per piegarlo – da una parte – agli interessi di pochi e alla speculazione; dall’altra – un tassello alla volta, tessera dopo tessera – per fare cassa svendendo il patrimonio pubblico. Lo abbiamo visto con la privatizzazione di Poste, che ora sembrerebbe stoppata, ma non per giusto ravvedimento, piuttosto perché questi non sono ritenuti tempi appropriati per vendere decentemente quel ‘prodotto’: infatti continua a non esistere un piano industriale, né del Governo, tantomeno del management di Poste. Lo abbiamo visto anche col declino di Telecom, di Alitalia e dell’importante indotto che interessa le piccole e medie imprese, aggravato ulteriormente dal ritardo dell’Italia in settori come quello della fibra ottica. La stessa emorragia occupazionale che sta riguardando tutti i settori del Paese è il risultato della graduale destrutturazione di alcuni fondamentali comparti, di scelte manageriali inopportune e dell’assenza di un piano di politica industriale di investimenti nei settori maggiormente strategici per il Paese: è inevitabile che tutto ciò produca conseguenze catastrofiche per il futuro dei lavoratori. Tutto questo sta sottraendo al Paese ulteriori prospettive di crescita, già fortemente compromesse.
In questo scenario, quindi, la scelta scriteriata di un Governo che decide coscientemente di uscire dagli asset principali di sviluppo e di programmazione deve essere combattuta alla pari delle grandi battaglie sul tema del lavoro in generale e dei diritti sociali. Luce, acqua, trasporti, telecomunicazioni devono rimanere saldamente in mano pubblica, pur nel rispetto dei parametri europei. Anche solo ipotizzare uno Stato avulso da questa scelta di campo equivale ad una resa incondizionata al mercato e ai grandi interessi che vorrebbero gli Stati nazionali, e l’Europa complessivamente, incapaci di organizzare il proprio futuro.
Dobbiamo impostare una vera politica industriale ed economica che investa nei comparti della comunicazione, dei trasporti, delle nuove tecnologie e metta al primo posto una strategia di sviluppo di questo Paese. Solo in quest’ottica può funzionare il riordino ed il rilancio delle aziende partecipate e municipalizzate, in una visione di lungo respiro capace di riconnettere il tessuto produttivo dei nostri territori. Stesso approccio vale per le grandi opere, che, realizzate con deroghe alle normative, degenerano nella corruzione (come dimostra l’esperienza italiana del Mose, dell’Expo 2015, della Variante di Valico, della Val di Susa), sollevando inquietanti criticità, come emerso anche da alcune delle più recenti audizioni che abbiamo tenuto nella Commissione Lavori pubblici. Opere che immobilizzano il Paese senza incidere in modo significativo sulle politiche del lavoro, il cui impatto in termini di variazioni del piano idrogeologico e paesaggistico presenta forti criticità ambientali: considero quindi assolutamente prioritaria una politica di interventi di riqualificazione e messa in sicurezza della pluralità di cantieri che interesseranno il nostro territorio, tracciando tempi congrui, precisi e sostenibili, mirati soprattutto ad evitare la dispersione di risorse fondamentali.
Il ruolo di Sel in questo contesto è di primaria importanza, nonostante il momento di apparente disorientamento, in cui però resta chiara e salda la strada da percorrere per coloro che, come me, continuano a pensare che Sinistra Ecologia Libertà sia il soggetto politico che ha più a cuore i temi dello sviluppo sostenibile, dell’uguaglianza e del lavoro. Ferma restando perciò la necessità di ridefinire in tempi brevi regole chiare – con il coinvolgimento reale della comunità – per esprimere una classe dirigente in grado di tracciare un nuovo inizio nel profilo programmatico e nei contenuti, non possiamo perdere la vocazione di SEL a costruire alleanze, né quella ad esercitare un’azione forte sul Governo, mirata alla definizione di politiche pubbliche virtuose in grado di promuovere produttività e competitività nell’economia reale, condizione fondamentale per ridefinire le politiche occupazionali e per tornare ad innestare i temi sociali in un humus capace di generare per tutti un futuro oltre la crisi.
*senatore SEL
Vicepresidente Commissione Lavori pubblici, trasporti e comunicazione
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Alberto De Grandis