Il posto del Quirinale
Sappiamo tutto quello che dice la Costituzione sul Presidente della Repubblica. Sappiamo davvero tutto. Il circo mediatico snocciola banalmente regole e procedure, facendo perdere il senso profondo del disegno democratico che esse racchiudono. Requisiti necessari per l’eleggibilità e meccanismo del voto segreto, maggioranza qualificata necessaria fino al terzo scrutinio e poi, da lì in avanti, maggioranza assoluta. Senza dimenticare l’incompatibilità con qualsiasi altra carica e le modalità e le procedure del prima dell’elezione e del dopo: tutto insomma è chiaramente scritto nella Carta costituzionale. E soprattutto è scritto quali siano le funzioni costituzionali del Capo dello Stato, a cominciare dalla più importante, cioè l’essere il rappresentante dell’unità della nazione, il garante della Costituzione, il “supra partes” per antonomasia. Quello che non si può tirare per la giacchetta, per usare il linguaggio pop della contemporaneità. L’insieme delle cose, insomma, che a Renzi non piacciono come al diavolo l’acqua santa. E possono non piacergli, oltre che nell’opinione che è libera perché sua, anche nelle mosse istituzionali che dovrebbero essere meno libere, dal momento che le istituzioni non sono sue, e che lui però compie sfacciatamente perché la politica ha consentito che questa metamorfosi avvenisse: l’idea che lui sia il dominus degli assetti istituzionali.
Per questo, all’improvviso – si fa per dire – in questi giorni costatiamo che il processo, per altro già da tempo in atto, di decostituzionalizzazione dell’ordinamento repubblicano è arrivato al punto, forse ormai di non ritorno, che il capo del governo, nella figura di Matteo Renzi, rubi al Parlamento, su un punto essenziale, la fisiologica dialettica democratica, i fisiologici approcci tra le forze politiche là presenti, insomma tutti gli strumenti tipici dell’attività parlamentare, e con inaudito atto d’imperio si intesti tutto il complesso meccanismo che porta alla scelta dei nomi da proporre e all’elezione del Presidente. In nome e sotto l’egida del patto del Nazareno, che ha sostituito quello della Costituzione. Fa tutto lui, fuori e dentro il Parlamento, appellandosi all’obbedienza, blandendo i sensi di colpa e di paura chiamandoli “intelligenza”, stabilendo tempi e modalità. Incontrando Silvio Berlusconi, il suo avatar.
Matteo Renzi è il dominus della scena mediatica con al centro le elezioni per il Quirinale perché ormai si è fatto dominus di tutte le regole e le procedure istituzionali che rendono possibile quell’elezione. Nome, tempi, votazione decisiva. Lo ha potuto fare perché la crisi della politica è quella che è, e soprattutto perché, a partire da quella crisi, il Presidente Napolitano glielo ha consentito, fungendo da suo Lord Protettore e consentendo che le slabbrature del rapporto tra esecutivo e Parlamento diventassero pesanti slittamenti a favore del primo e a discapito del secondo. Indaffarato freneticamente in questi giorni, il secondo, cioè quelle assemblee che la Costituzione definisce rappresentative, nel gioco al massacro di se stesso, per consentire al premier di dire: vedete, ce l’ho fatta col mio intenso calendario di riforme. Alla faccia di gufi e rosiconi.
Siamo a questo punto e il teatrino per le elezioni presidenziali mette il scena soprattutto il teatro degli inganni e l’osceno, nel senso di “fuori scena”, del consenso politico su cui gli inganni si reggono. Fra gli inganni, il più oscuro – si fa per dire – è l’accordo con Silvio Berlusconi e il carattere di tipo privatistico che lega il vecchio e il nuovo premier. Il dissidente Pippo Civati, nel suo modo un po’ così, osa buttar là un nome, una preferenza personale su chi potrebbe essere Presidente, e immediatamente viene rimproverato anche da chi gli è più vicino nel partito, e additato, dalla nuova leadership piddina, come un nemico della grande impresa rinnovatrice di Palazzo Chigi. Il “senza obbligo di mandato” della carica parlamentare, che significa che ogni parlamentare è libero di fare le scelte che vuole se non è d’accordo col suo gruppo, suona come uno sberleffo nell’ epoca di un Paralamento ridotto a ufficio notarile e messo sotto schiaffo dalla corte Costituzionale, anche per essere un’assemblea di nominati destinati, secondo l’Italicum, a essere ancora nominandi.
Un’ ulteriore perdita di credibilità presso l’opinione pubblica, che Renzi cinicamente utilizza per far passare tutto quello che vuole come se il Parlamento fosse una dependance di Palazzo Chigi.
Il valore della funzione di terzietà del Quirinale ha via via perso ogni significato positivo e vincolante, nella crisi politico-istuzionale che ha disastrato il Paese e che la politica, di tutte le parti, non è stata in grado di affrontare con gli strumenti della politica e le regole della Costituzione. La figura del Capo dello Stato – e in questo il Presidente Napolitano ha avuto un ruolo decisivo – ha condensato su di sé gli effetti pratici e simbolici della torsione in senso presidenzialistico dell’ordinamento, che sempre più si è diffusa nell’opinione pubblica. Si è andati avanti, mediaticamente e politicamente, come se si trattasse di una bazzecola, senza spiegare, per esempio, che se si optasse per una Repubblica di tipo presidenziale si dovrebbe per prima cosa pensare a come sistemare il problema del bilanciamento dei poteri – cosa di primaria importanza perché la democrazia continui ad avere corso – mentre la regola imperante è il “fai da te” istituzionale, sono le incursioni di ogni tipo, l’andare oltre il consentito, come se la materia istituzionale fosse di natura privata nelle mani del leader e della sua cerchia di fidelizzati.
Con Renzi siamo al massimo di questo andazzo ma anche oltre. Il premier non vuole un inquilino del Quirinale che in qualche misura diventi un suo competitore, che si avvalga degli effetti della torsione presidenzialistica per giocarsi l’incarico come meglio ritenga opportuno. Renzi, al contrario, vuole, vorrebbe, tenta di imporre un personaggio che gli faccia da sponda di cui fidarsi, che non l’intralci, che gli faciliti, in Italia e in Europa, la grande impresa del “cambiare l’Italia”. Il suo restare al comando e comandare. Per questo sta agendo, con la tipica mossa del populismo dall’altro che lo contraddistingue, come se la gerarchia delle cariche istituzionali avesse in cima lui stesso e da lui discendesse la legittimità a procedere per testare e trovare il personaggio più adatto, le procedure più veloci, le fedeltà più diamantina da parte dei parlamentari della sua area.
La cosa più stupefacente è che tutto ciò è accolto come se le cose non possano andare in altro modo. Non è Renzi in quanto tale che deve soprattutto preoccupare. E’il conformismo dilagante delle forze politiche, del circo mediatico, dell’opinione pubblica, è tutto questo e altro il dato più allarmante, che da lui discende e lascia l’impronta. Perché è un conformismo performativo, produttore di senso, di relazioni sociali, di assetti di potere, di forme di vita, di soggettività conformi.
Quel tipo di human factor insomma, oggettivato e addomesticato, che l’incontro milanese di Sel intitolato Human Factor ha voluto rovesciare nel recupero di un umano consapevole, di un processo di soggettivazione libera che ritrova la strada della critica non conforme, del diverso posizionamento politico, del “podemos” anche noi, se troviamo i modi di dirlo e farlo in lingua italiana e con autentica passione europea. Il problema di misurarsi all’altezza con le elezioni del Presidente della Repubblica ne fa parte.
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