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Venerdì, 15 aprile 2016

Il referendum sulle trivelle e le bufale sul lavoro per farlo fallire

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Dopo le bufale sul fabbisogno energetico, ora, pur di far fallire il referendum, arrivano pure quelle sul lavoro. Vediamo perché.

Innanzitutto, non ci sono, al contrario di ciò che dice Renzi, 11 mila posti di lavoro in pericolo. Non solo perché persino Assomineraria – cioè l’associazione dei petrolieri in Confindustria – parla di 5 mila occupati, cioè di una cifra ben lontana da quella del premier. Ma perché, in caso di vittoria del Sì, nessuno di loro perderà il lavoro. Nessuno.

Questa sarebbe, per pura onestà, la prima cosa da dire: nessun posto di lavoro viene messo a rischio all’indomani del referendum. Per un motivo semplice: con la vittoria del Sì, i permessi attualmente in corso rimarranno comunque attivi fino alla loro scadenza. Tre delle quali avverranno nei prossimi cinque anni, mentre la maggior parte delle altre tra quindici. Tempi più che ragionevoli per ricollocare le poche centinaia di persone coinvolte. Se un governo non riesce a ricollocare 5 mila persone in 15-20 anni, sorgono dei dubbi sulla capacità di dirigere un Paese più che la gestione delle politiche energetiche.

A voler essere onesti, tra l’altro, dovremmo ricordare che le piattaforme di estrazione non creano molta occupazione, perché sono investimenti ad alta intensità di capitale ma bassissima di lavoro. Basti pensare che il progetto “Ombrina Mare”, pensato a 3 miglia dalla splendida costa dei Trabocchi e poi bloccato anche grazie a una mobilitazione popolare, prevedeva, a fronte di un investimento di 250 milioni di euro, la creazione di 24 posti di lavoro. Altro esempio emblematico è dato da uno degli ultimi impianti sbloccati dal governo: “Offshore Ibleo“, campo petrolifero che l’Eni sta costruendo in Sicilia, al largo della costa di Licata, che a fronte di un investimento di 1,8 miliardi porterà soli 120 posti di lavoro.

Inoltre, c’è da dire che la maggior parte delle occupazione viene generata nel momento in cui le piattaforme vengono installate, dopodiché l’occupazione scende a livelli molto bassi. Infatti, non tutti sanno che su gran parte delle piattaforme italiane non lavora nessuno. Ad esempio, l’impianto di Rospo Mare, in Abruzzo, è completamente automatizzato, radiocomandato dalla terraferma. Le altre piattaforme, invece, hanno un personale ridotto (dalle 2 alle 4 persone), in quanto la maggior parte delle strumentazioni sono telecontrollate da terra.

Tra l’altro, il settore è già in crisi in crisi da tempo, con conseguenze negative sull’occupazione: solo nel ravennate si sono già persi 900 posti di lavoro e a giugno 2016, indipendentemente dal referendum, i posti persi si stima arriveranno a 2500.

Ognuno può avere le proprie ragioni per votare sì o no al referendum, ma lo spauracchio del lavoro non trova ragioni. Perché sono politiche che danno molti utili alle compagnie petrolifere ma generano pochissimi posti di lavoro. Inoltre, un governo che prende impegni a Cop21, che ha davanti a sé l’obbligo di transitare dalle fossili alle rinnovabili e una crisi occupazionale del settore fossile, dovrebbe fare un ragionamento lucido, agevolato dal fatto che non ci sia studio o dati che ci dica che per gli stessi soldi investiti nella politica delle trivellazioni, si creino, citando stime al ribasso, almeno 7 posti di lavoro nelle energie rinnovabili.

Investire nel settore delle energie rinnovabili, infatti, oltre a coprire facilmente le quote di fabbisogno energetico che verranno meno (cifre ridicole: 0,95% petrolio, 3% gas), permetterebbe di ricollocare quei pochi lavoratori impegnati nelle piattaforme che scadranno tra qualche anno e di creare centinaia di migliaia di posti di lavoro contro le poche migliaia attualmente attive per le piattaforme petrolifere.

Qui sta il punto. Secondo uno studio redatto da Althesys (società professionale indipendente), in Italia entro il 2030 si potrebbero garantire oltre 100 mila posti di lavoro nel settore delle rinnovabili – cioè circa il triplo di quanto occupa oggi Fiat Auto in Italia. E circa 10 volte i numeri citati dal premier.

Le prime concessioni scadranno tra qualche anno, non il 18 aprile. Questo significa che c’è tutto il tempo per ricollocare i lavoratori in settori meno inquinanti e più consoni allo sviluppo del Paese. Ma questo lo fanno gli innovatori, quelli che vogliono cambiare verso al Paese. Quelli che fanno finta, al contrario, si affidano alle lobby del petrolio e ci raccontano una realtà che nemmeno esiste. Però, almeno, lasciate in pace la gente che lavora.

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