Il senso delle armi
Della guerra e dei conflitti ha parlato spesso con accenti profetici Papa Bergoglio e, in questi giorni, del mercato delle armi che non conosce crisi ha parlato il quotidiano cattolico Avvenire. Non ne parla invece la politica né europea né tantomeno italiana. L’Unione europea, sottolinea l’Avvenire, è colpevolmente silente di fronte al fatto che il Trattato che regolamenta il commercio delle armi tradizionali, approvato nello scorso aprile dall’Assemblea generale delle Nazioni unite e che entrerà in vigore il 24 dicembre prossimo, non è entrato nel dibattito politico dell’Europa. I Paesi europei lo hanno sottoscritto ma restano in silenzio di fronte alla mancata ratifica da parte degli Usa. Anche il fatto che già la Russia, la Cina e l’India non l’avevano firmato sembra argomento di nessuna importanza. Il tutto, compreso il silenzio europeo, rende debole quel trattato, impossibilitato a regolamentare davvero e soprattutto contenere la forsennata corsa agli armamenti che caratterizza l’attuale fase politica.
Il quadro globale non lascia spazio a dubbi. Nel solo 2013 la spesa militare ha raggiunto i 1.702 miliardi di dollari. I Paesi in testa alla graduatoria della spesa sono gli Usa (36% del totale del mercato), la Cina (il 10 %), la Russia (il 5%), l’Arabia Saudita (con il 4%), la Francia (il 3,5%). Nel periodo compreso tra il 2001 e il 2013 le spese militari sono aumentate in termini reali a livello globale del 30%. Tutti spendono di più. Un potenza emergente come l’India il 71% e in Africa i Paesi sub-sahariani l’85%. In Europa la crescita è contenuta, limitata al 3% per cento ma una tale modestia è frutto soprattutto delle ricette di austerità. Infatti sino al 2009 anche il Paesi dell’Ue erano su un trend di circa il 10%.
D’altra parte i Paesi europei occupano una parte decisiva tra i produttori di armi e armamenti. E il business è di quelli pesanti.
Il silenzio del Vecchio continente sul Trattato relativo al commercio delle armi convenzionali non è dunque casuale.
Come non è casuale il balletto francese intorno alla consegna al committente, che è la Russia colpita dalle sanzioni dell’Ue, di due portaelicotteri Mistral di produzione francese – già pronta la prima a essere consegnata il 14 novembre, e pronta la seconda a essere testata in mare quello stesso giorno. Il balletto infatti mette in scena plasticamente le contraddizioni e i paradossi europei che stanno dietro agli interessi del mercato delle armi. Soprattutto perché la produzione è per lo più di proprietà pubblica e gli Stati, che dovrebbero sforzarsi di fondare il loro stare insieme su ragioni non sottoponibili agli interessi dell’affarismo industriale-militare, sono in realtà ciascuno per suo conto subalterni a quegli intereressi.
Hollande, premier francese ondivago e in forte calo di consensi, vorrebbe assecondare il presidente Barack Obama che gli suggerisce di non ottemperare alla consegna delle due portaelicotteri alla Russia di Putin che le ha commissionate, resasi responsabile, a giudizio euro-atlantico, della crisi ucraina, al punto di essere stata colpita dalle sanzioni dell’Ue. Ma i pareri in casa francese a proposto dei rapporti commerciali non sono per niente unanimi, come dimostra la posizione del ministro delle Finanze Michel Sapin, il quale ha più volte chiarito, che nulla osta ormai alla consegna delle due portaelicotteri. Proprio nulla sul piano tecnico logistico, hanno fatto sapere negli stessi giorni anche i rappresentanti dei cantieri navali, affermando di essere pronti a consegnare la prima imbarcazione, dal momento che tutte le apparecchiature funzionano correttamente. Proprio nulla osta anche per la prevalente opinione pubblica francese, stando a un sondaggio del Figaro.
Questo succede in Europa, dove la produzione in mano pubblica di armi e armamenti, che rispondeva un tempo al principio del monopolio dello Stato della sicurezza nazionale, si è trasformata in rendita finanziaria tra le più potenti e, a eccezione della Gran Bretagna, resta, per quanto concerne la produzione di armamenti, in mano pubblica. Finmeccanica in Italia ne è esempio, come Safran, DCNS e Thales in Francia, Navantia in Spagna e il colosso Airbus controllato da Germania Francia e Spagna in tema di consorzio tra Stati.
Così il business delle armi di produzione europea va a complicare i già complicati rapporti tra i Paesi dell’Ue, già di loro non univoci circa l’opportunità delle sanzioni a Putin, perché diversi sono interessi e vision strategiche degli uni e degli altri e pressoché assente non solo un’impostazione strategica degna di questo nome, in materia di politica estera, e assente una visione condivisa dei rapporti internazionali dell’Ue, ma anche un adeguato livello di efficacia politica circa la contingenza degli accadimenti e la conseguente ricerca di una mediazione politica tra i punti di vista diversi. La crisi dell’Ucraina addebitata tout court alla sola propensione neo imperiale della Russia, senza ricordare la propensione neo espansionistica a direzione euro atlantica della Nato, significa riprodurre una logica della contrapposizione tra campi che non serve a nessuno. Significa restare prigionieri della geopolitica di Yalta e non sapere come uscirne. Soprattutto non serve all’Europa se mai c’è chi ancora si ostina a pensare che un destino politico comune del nostro continente ci debba e ci possa ancora essere. Ma senza un riposizionamento pensato e agito in autonomia e possibilmente in amicizia con tutti nessuna vera uscita si può trovare.
L’industria delle armi non conosce per questo crisi. Più conflitti più guadagni. E’ questa la sua logica ferrea. Il suo senso performativo, quello che “fa” le cose. E i conflitti di ogni tipo si moltiplicano, tornano dove sembravano scomparsi, contagiano i territori, distruggono ferocemente le vite ma danno anche risposte alle frustrazioni umane e alimentano le identità perdute. Diventano cioè produttori di senso. Coinvolgono. Soprattutto, da sempre, rafforzano o indeboliscono i poteri che già ci sono e ne costruiscono altri. Gli avvii pratici e performativi di guerre e conflitti sono per lo più, non per caso, nelle mani di chi può. Dei poteri potenti soprattutto: ancora gli Usa tra i primi, che oggi devono fare i conti con poderose potenze in ascesa e tentano per questo di concentrare le loro preoccupazioni geopolitiche soprattutto sul lato del Pacifico, con l’idea di contenere l’espansione della Cina, che oggi sembra incontenibile. Ma continuano a stare dietro a molti conflitti in atto nel mondo, da loro stessi attivati, come ci racconta la vicenda mediorientale e il configurarsi in quella regione strategica di una nuova presenza a tutto tondo degli Stati Uniti.
I conflitti disegnano e ridisegnano i rapporti di potere in loco o a livello mondiale. Per questo prendono vita e si sviluppano in continuazione e la difficoltà oggi, nella confusa complessità del mondo globale, è capire a fondo le responsabilità primarie dell’incipit di questo o quel conflitto e delle ragioni che stanno dietro. Individuare le responsabilità primarie, gli intrecci decisivi sembra sempre più difficile. Il venir meno di questo capacità di lettura è forse anche una delle cause del declino di quella vocazione di pace che in tempi passati ma non lontani da noi ha attraversato il mondo occidentale e il nostro Paese con forza particolare.
L’ex generale Fabio Mini (La guerra spiegata a…) per spiegare le difficoltà a capire certe guerre della contemporaneità, prende a esempio la vicenda bellica in Libia, che ha portato al crollo del regime di Gheddafi, dove gli amanti delle definizioni strategiche, dice Mini, possono ritrovare di tutto. Dalla ribellione interna contro il regime del colonnello alla “guerra coloniale per l’avidità delle motivazioni che avevano determinato l’intervento internazionale”; dall’essere stata avviata per volontà di una parte della popolazione libica e non per iniziativa delle Cancellerie ma dall’essere stata poi da queste supportate. Guerra senza presenza diretta degli Usa ma che senza gli americani non sarebbe stata possibile. E altro. Insomma il coacervo delle contraddizione del caotico disordine globale che ci domina ha molti esempi. Certamente però è un caos che lo smisurato mercato delle armi, per molti versi fuori controllo, come la vicenda del Califfato nero dimostra, alimenta e proietta in molte rischiose direzioni.
Per questo il tema della critica e del contrasto politico alla follia degli armamenti rimane centrale.