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Lunedì, 30 giugno 2014

Investire nella scuola per uscire dalla crisi

CENSIS SCUOLA

La rilevazione Censis del 26 giugno scorso associa alla scuola il sentimento di sfiducia crescente e diffusa. Letto semplicemente così il risultato della rilevazione è una fotografia impietosa che  consente però di fare luce su alcune mistificazioni indotte con perizia nel corpo dell’opinione pubblica.

Dunque la scuola è percepita come istituzione in decadenza, i suoi operatori privi di prestigio, il suo fine, ovvero la sua capacità d’essere ‘ascensore sociale’,  in stato di fallimento.

Eppure messa solo così oltre che troppo semplificata sarebbe una lettura  ingenerosa: la sfiducia non dovrebbe investire i singoli, ovvero gli operatori della scuola presi nel loro impegno quotidiano, non dovrebbe investire la scuola come istituzione o la sua capacità d’essere strumento di emancipazione.

Del resto come non tener conto del fatto che anni di prelievi forzosi e continui avrebbero messo a dura prova anche il miglior sistema;  anni di delegittimazione mediatica continuata avrebbero distrutto la migliore reputazione;  anni di riforme del mercato del lavoro in nome del mantra della flessibilità senza investimenti pubblici non avrebbero creato né un posto di lavoro in più, tantomeno di qualità, in nessun luogo.

Poiché abbiamo memoria di quanto è successo nel nostro paese nel corso degli ultimi anni riteniamo opportuno chiamare in causa, almeno per completezza,  i veri protagonisti di questa condizione: le politiche scolastiche degli ultimi 10 anni e l’incapacità di declinare le politiche del lavoro se non nella versione più scadente e dequalificata.

L’unica riforma di sistema, quella dell’autonomia scolastica, è stata scientificamente sabotata;

Benchè l’Europa richieda da tempo di investire sull’istruzione prescolare (0-3), e ad oggi la domanda sia più elevata dell’offerta, i servizi per l’infanzia sono ancora ‘a domanda individuale’ . Inoltre secondo il Censis che cita il monitoraggio Miur 2010-11 emergono criticità rilevanti dovute da un lato alla “troppa diffusa esternalizzazione del servizio a soggetti privati da parte dei soggetti pubblici o paritari che ne sono titolari”e dall’altro al “mancato rispetto del rapporto 1 a 10 tra educatore e bambini, che mette a rischio, al solo scopo di ammortizzare i costi, la funzione educativa di questo segmento”.

Benchè la scuola dell’infanzia sia fondamentale, non è ancora obbligatorio neanche l’ultimo anno che ne consentirebbe la generalizzazione.

Gli interventi del 2008 e del 2009 hanno pesantemente modificato, in conseguenza di meri tagli lineari, la fisionomia della scuola primaria che ha visto scomparire l’organizzazione modulare e il tempo pieno, esperienze di avanguardia guardate con interesse in Europa;

Anche i quadri orario e dunque l’offerta formativa curriculare della scuola secondaria di primo e secondo grado sono stati ridotti  senza altro criterio che non fosse il risparmio.

Il sovraffollamento delle  classi è stata la prima visibile conseguenza di tutta questa operazione. Tutto il resto è semplicemente intuibile.

Come se non bastasse il fondo per l’autonomia è stato letteralmente sottratto alle scuole: quindi alla minore offerta curriculare si è aggiunta la sottrazione dei fondi per  per l’ampliamento dell’offerta formativa, cuore dell’autonomia scolastica.

Mi chiedo cos’altro avrebbe dovuto subire questa Istituzione per essere del tutto annientata.

Tuttavia il dibattito in atto al momento intorno al Dicastero Giannini è completamente spostato sulla valutazione delle scuole e dei docenti nonchè sulla fine del primato dello Stato nella gestione dell’istruzione pubblica; sul mutamento di stato giuridico dei docenti e sul vero non detto che è la  fine dell’autonomia scolastica. Tutto ciò oltre a qualche altra delle innumerevoli dichiarazioni a mezzo stampa che il Ministro non ci fa mancare, un giorno si e l’altro pure.

Come potrebbe questa scuola così sfigurata nella sua fisionomia più autentica, quella che ha origine negli artt. 2, 3, 33, 34 della Costituzione svolgere ancora al meglio il suo ruolo di emancipazione?

Come potrebbe garantire ad ognuno, secondo le proprie capacità , di realizzare compiutamente la sua personalità come individuo e nella società , indipendentemente dalle sue condizioni di partenza,  famiglia di nascita, quartiere della città, collocazione geografica a nord o a sud del paese?

Come può questa scuola, se questo è il progetto che anima gli attuali decisori, e come potrebbe semplicemente un titolo di studio essere un viatico verso un buon lavoro se a partire dalla flessibilità per finire al Job Act è la cultura del lavoro ad essere stata archiviata nel nostro Paese?

La più naturale delle conseguenze non può che essere quella più ‘novecentesca’. Infatti recita il Rapporto Censis: “ Il raggiungimento di alti livelli di istruzione ha avuto ed ancora ha un ruolo ambivalente nel favorire il processo di promozione sociale in quanto non sufficiente di per sé ma condizionato fortemente dalla posizione sociale di origine e dalla strutturazione del mercato del lavoro”.

Noi pensiamo che la scuola non possa essere più un terreno in cui ci si esercita a contenere la spesa pubblica in nome dell’austerità  con scorribande alla bisogna; che non possa più essere un terreno di redistribuzione una tantum; che abbia bisogno di investimenti strutturali che si innestino su una idea seria, costruita in modo condiviso e partecipato,  di democratizzazione dell’accesso ai saperi nonché di una fruizione di qualità degli stessi.

In poche parole,  una buona scuola della Repubblica, come recita la Legge di Iniziativa Popolare che abbiamo firmato e che sosteniamo.

Commenti

  • frank

    Il problema è che io sono del 1960