Iraq, alle origini del califfato dell’Isis. Una storia che è bene ricordare
Un volta la sinistra, per capire le cose, partiva ab ovo, dall’inizio, e ricostruiva minuziosamente tutto, prima di arrivare al punto del che fare. Potevi non essere d’accordo ma sapevi almeno di che cosa si parlava. Oggi – quel che ne rimane della sinistra – parte dall’ultimo pezzo della coda e non si capisce proprio più nulla di quello che vuol fare e perché lo voglia fare. La ministra Mogherini, per esempio, ci deve spiegare perché si sia così affannata a riunire a Ferragosto i ministri degli Esteri dell’Ue, per arrivare solennemente alla conclusione che chi vuole, dei Paesi membri, può far pervenire armi ai peshmerga curdi iracheni, impegnati nel contrasto al Califfato nero. Armi per di più residuali, perché, per quanto riguarda l’Italia, non si esclude di fare eventuale ricorso ai kalashnikov, circa 30mila, e alle tonnellate di munizionamento sequestrati nel 1994, nel pieno delle guerre nei Balcani, ad una nave da trasporto partita dall’Ucraina e diretta a Spalato. Politica estera fai da te, insomma, come è stato per altro fino ad oggi ma con in più il mantra ideologico del risparmio. Un bel passo avanti con la Presidenza italiana del semestre, non c’è che dire.
Il 28 maggio di quest’anno, nella consueta cerimonia di incontro con i cadetti di West Point, il presidente Barack Obama ha parlato retoricamente degli Stati Uniti come di una “nazione indispensabile”, “perno di alleanze impareggiabili” nella storia delle nazioni. La retorica, spesso fuori misura, fa parte della politica di tutti gli Stati, soprattutto della grandi potenze, e gli Stati Uniti, nonostante la fase declinante in cui quel grande Paese è ormai entrato, continuano a essere la più grande potenza del mondo. E tuttavia è davvero un potenza declinante, e del declino, a Washington, c’è una strategica consapevolezza, unita ovviamente alla costante ricerca di piani e stratagemmi per non soccombere al nuovo che avanza.
Il complesso delle vicende che infiammano oggi il nord dell’Iraq fa parte di questo nuovo che avanza, spesso in modo incontrollabile. C’è, nel nuovo, il vecchio dei veleni lasciati in eredità dalla guerra condotta contro Saddam Hussein da George W. Bush e dalla corte di fanatici neocon che ne ha ispirato l’azione. Veleni disseminati, oltre che dalle armi, anche dall’incapacità o dalla non volontà di Washington di tenere sotto controllo l’evoluzione del dopo guerra iracheno, svolgendo almeno, in qualità di Paese occupante, un ruolo di mediazione tra le parti e contrastando, invece di farsene soggetto, la politica di estromissione e penalizzazione di chi aveva sostenuto il regime di Saddam Hussein: il partito Baath, innanzitutto, e la componente sunnita della popolazione, insediata soprattutto nella parte settentrionale del Paese. Dove, non a caso, oggi spadroneggiano i miliziani del Califfato nero e dove dall’indomani della caduta del regime di Saddam Hussein i sunniti hanno animato rivolte e proteste di ogni tipo, contro il nuovo regime, la sua corruzione e inefficienza, l’uso partigiano delle risorse petrolifere a vantaggio della parte sciita del sud, nonché la presenza degli Usa.
Lo sgretolamento dell’Iraq ha preso il via da subito, con l’entrata dei marines a Baghdad, e con la dura politica di cacciata dei baathisti sunniti, di sciogliemento delle forze armate, di estromissione di tutti i funzionari del vecchio regime. Cioè la cancellazione della parte del Paese che ne era stata classe dirigente e dominante. Proprio quello che serve per sventrare uno Stato e avvelenare pozzi della convivenza.
L’Iraq è precipitato inevitabilmente in una dinamica di guerra civile e di scontro settario tra sunniti e sciiti. Non per caso l’Isis nasce dalla branca irachena di al Qaeda fondata dal giordano Musab Al Zarqawi e, dopo la sua uccisione nel 2007, si è trasformata dal 2010 nello Stato Islamico dell’Iraq. Connessioni tra strategie terroriste e frustrazioni politiche degli sconfitti, tra sconfitte e revanscismo, tra fondamentalismi ideologici e cinismi politici.
La frammentazione ha acquisito carattere strutturale e in questo i curdi iracheni, insediati in un territorio ricco di petrolio – il petrolio ha ovviamente un ruolo fondamentale nelle vicende irachene di questi anni a nelle vicende intorno all’Iraq – hanno giocato in autonomia, esportando in Turchia il loro petrolio. Questione curda tout azimut dunque, nell’intreccio tra la legittimità storica delle loro richieste e il rischio che oggi tutto si risolva in un ulteriore caos, privo di qualsiasi punto di riferimento dotato di una qualche legittimità a essere tale. E’ questo caos che, tra le altre cose, ha consentito allo Stato islamico di conquistare Mosul, di estendersi dalla Siria fino ai governatorati di Niniveh e Al Anbar, stringendo in un abbraccio mortale le province di Salahaddin e di Diyala, arrivando a controllare la diga strategica di Mosul e assediando la stessa Baghdad.
In un contesto di questo genere i droni, al di là del voler continuare ad affrontare i problemi in chiave militare, servono davvero a poco se a niente è servita in questi anni la politica dei “boots on the ground”. Ma Obama in realtà non ha molte scelte. Su Washington pesano oggi, come raramente è avvenuto in passato, la questione del bilancio e lo sconcerto dell’opinione pubblica americana per i troppi morti americani delle ultime guerre. Gli Stati Uniti nella guerra in Iraq hanno speso 1.700 miliardi di dollari (in un conflitto con almeno 200mila vittime), uno dei peggiori investimenti bellici della storia. Non soltanto per i risultati in sé, inequivocabilmente negativi, ma per il vaso di Pandora che hanno scoperchiato, per le autostrade che hanno aperto alla penetrazione di gruppi, strategie, tattiche sul campo di stampo al qaedista e affini. I risultati delle guerre neocon hanno fornito in altre parole le condizioni ottimali perché la presenza del Califfato si impiantasse nell’ex triangolo sunnita.
Obama ha anche potuto verificato, nel corso dei suoi mandati, la velleitaria debolezza della strategia da lui accarezzata del cosiddetto smart power, cioè l’idea che fosse arrivato il tempo che i problemi di questa parte del mondo – la nostra – dovessero essere di competenza della stessa parte, cioè in primis degli Europei, e agli Usa dovesse bastare l’opera di spionaggio, infiltraggio e simili, dovunque Washington ritenesse utile o necessario operare in tale senso.
La complessa stagione del primavere arabe, la vicenda libica, le convulsioni egiziane, le dinamiche che hanno investito la Turchia, fino alla riconferma di stretta misura di Erdogan, hanno fatto registrare la tradizionale inesistenza, sulle questioni estere, di un punto di vista unitario da parte dell’Unione europea, di una strategia degna di questo nome, di un insieme di preoccupazioni politiche in grado di incidere sui problemi. La politica estera dell’Ue non esiste e la patetica messa in scena del giorno di Ferragosto, con i ministri degli Esteri raccolti in un summit privo di volontà e soprattutto di potere decisionale, ne è stata solo la riconferma. Non è stata presa nessuna decisione da parte dell’Ue, si è fatta solo una mossa finta, sancendo coram populo quello che si è sempre fatto, cioè che ogni Paese membro può procedere come meglio ritenga opportuno. Come è successo non molto tempo fa, in maniera esemplare, in Libia, Ed è solo un esempio.
Rispondendo alle pressioni degli Usa e di molti Paesi della comunità internazionale, e col sostegno carismatico del grande ayatollah Ali al Sistani, la massima autorità religiosa sciita del Paese, il presidente irakeno Fuad Masum ha infine affidato l’incarico di formare il nuovo governo al vice-presidente del Parlamento Haidar al-Abadi, mettendo fine agli otto anni di potere dell’ex premier Nouri al Maliki, principale imputato per le divisioni e le violenze nel Paese e particolarmente inviso alla parte sunnita. Maliki era appena uscito vincitore, sia pure di misura dalle ultime elezioni, e ha fatto fuoco e fiamme per restare al suo posto. Un ossimoro politico istituzionale, la sua destituzione, dopo che per anni gli Usa si sono esercitati nella favola bella che la democrazia per via delle elezioni è la democrazia punto e basta. Ma forse qualcosa col nuovo cambierà e c’è solo da augurarselo.
Oggi ridurre, come è stato fatto nel vertice europeo, tutta la questione alla necessità di armare i curdi significa accettare la bancarotta morale e politica dell’Europa, L’ennesima, perché non possiamo dimenticare il sostanziale silenzio europeo sui bombardamenti israeliani contro Gaza, soprattutto sul modo di procedere di questi bombardamenti sugli inermi della Striscia.
Ridurre tutto all’opzione di armare i curdi, significa delegare ai curdi quello che dovrebbe essere fatto da una forza internazionale a guida Onu. Significa rinunciare all’idea, oggi costituente per il nostro continente, che l’Europa ha cose da dire, da proporre, da agire su e per la politica internazionale.
Si possono subito proporre e concorrere a che vengano realizzati corridoi umanitari a difesa dei civili e avviare una iniziativa diplomatica nei confronti di quei Paesi che sostengono l’Isis.
Resta però che la complessità dei problemi internazionali che si vanno sedimentando senza risposta, con le ripercussioni che hanno da subito sull’Europa, richiedono non solo piccoli passi immediati ma una politica audace da parte dell’Europa, con l’obiettivo strategico di attivare un processo di pace a largo raggio, guidato dall’Onu a cui l’Europa dia il massimo aiuto, manifestando in tutti i modi la volontà come Ue di costruire le condizioni di una poderosa Conferenza della pace, operando perché ne siano protagonisti tutti i Paesi dell’area, a cominciare dall’Iran, il cui ruolo è davvero essenziale per il destino della regione e i rapporti internazionali. Perché ognuno si faccia responsabile e risponda delle responsabilità pregresse del proprio Paese, se questo è necessario, e l’Europa non è immune da responsabilità.
Farsi insomma attore protagonista dei problemi della contemporaneità, in prima persona, come Unione europea: è questo che dobbiamo chiedere e questo che ci dobbiamo aspettare, sottolineare, pretendere, soprattutto l’Italia, in questi mesi di presidenza a noi affidata. Altrimenti non si capisce davvero ch cosa sia questa Europa, se non un triste luogo penitenziale, dove tutto va all’indietro e dove non esiste nessuna ragione politica e umana perché le nuove generazioni costruiscano insieme un futuro comune. Un Europa che si sperimenti di nuovo con una politica all’altezza, come certo non è quella propinataci dal triste incontro ferragostano di quest’anno. Ma come può ancora essere.
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