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Mercoledì, 18 giugno 2014

Iraq, come un gioco dell’Oca

ISIS Control in Iraq and Syria 6/16/2014

Il laburista Tony Blair fu tra i più convinti sostenitori delle strategie belliche del presidente George W. Bush in Iraq e, per la causa, imbastì bugie di ogni tipo sul tema delle armi di distruzione di massa. Il Foglio, non a caso, gli ha dedicato, in questi giorni di esplosiva ripresa del tema iracheno, un articolo elogiativo, annoverandolo nel gruppo dirigente occidentale che si batté contro il terrorismo e gli Stati “canaglia”. Blair con Bush e il team di neoconservatori iper ideologizzati (Cheney, Rumsfeld, Feith, Bolton e il loro Nuovo Ordine Mondiale), che con determinazione muscolare sostennero e indirizzarono il presidente americano. Già di suo più che convinto, per altro. E Blair con i Paesi della cosiddetta willing coalition, cioè i volontari della guerra, tra cui l’Italia, che collaborarono o parteciparono fuori da ogni regola del diritto internazionale e senza alcun mandato delle Nazioni unite. Le quali Nazioni unite erano invece impegnate, vanamente, a certificare che le armi di distruzione di massa non c’erano. La logica che mosse la willing coalition ha poi fatto scuola, come altre vicende dimostrano. La Libia, per esempio, Paese certo non stabilizzato

Il Foglio ha anche pubblicato un recente testo di Blair, in cui l’ex inquilino di Down Street rivendica il suo ruolo, respinge le accuse, spesso pesanti, che la sua stessa opinione pubblica gli mosse fin dall’inizio, per aver manipolato le cose, e argomenta audacemente che la guerra a vasto raggio era, dopo l’11 Settembre, l’unico strumento per contrastare l’avanzato del terrorismo. Ammette che ci sono stati errori, che forse si poteva fare meglio, ma di fronte all’inequivocabile realtà odierna che in Iraq i gruppi jihadisti, con legami e simpatie con al Qaeda, non hanno mai smesso di mandare all’aria le strategie statunitensi di pacificazione, scrive che nulla dimostra che senza l’intervento contro il regime di Saddam Hussein le cose sarebbero andate diversamente. Follia del potere che fu o perenne narcisismo individualistico? Le due cose, nel gioco della politica di potenza, spesso stanno insieme.

Le milizie sunnite antigovernative e i miliziani dell’Isis (Islamic State in Iraq and in Syria, cioè il mini-Califfato a vocazione fondamentalista, a cui i miliziani hanno dato vita nella zona di confine con la Siria), dopo la conquista di Mosul e di altre importanti città della zona circostante, continuano la loro avanzata verso Baghdad. Il Sud sciita, ancora lontano, appare sempre meno lontano. E’ là, tra l’altro, che si concentra la ricchezza petrolifera maggiormente sfruttata. Più o meno il 90 per cento dell’intera attuale produzione. Gli enormi giacimenti del Nord-Est infatti sono per il momento scarsamente sfruttati e la partita del petrolio, come è ovvio, gioca il suo ruolo nel rendere incandescente la situazione del Paese. Gli antigovernativi, in questi giorni, hanno conquistato la strategica città di Tal Afar, 200 mila abitanti, situata a Nord-Est di Mosul, nelle vicinanze del confine turco. Tal Afar è caduta pur essendo difesa da forze irachene scelte, capeggiate da Abu Waleed, un ufficiale addestrato direttamente dagli Stati Uniti e considerato tra i più esperti delle nuove leve militari del Paese. Anche questo un tema da sempre chiaro agli analisti e agli stessi esperti statunitensi, soprattutto in occasione del ritiro, nel 2011, delle truppe americane dall’Iraq. Vale ricordare che il tema vale anche per l’Afghanistan, sia pure nella diversità dei contesti.

La situazione, con tutta evidenza, potrebbe precipitare da un momento all’altro, con esiti di cui non si può al momento valutare la portata ma che intanto già mettono in scena tutta la portata dello scontro – contrasto inter-religioso antico ma oggi diventato un ideologizzato conflitto politico di difficile composizione – tra la parte sunnita, che ai tempi di Saddam Hussein costituiva la struttura sociale e politica portante del regime, e quella sciita, oggi la base di consenso, non unica, ma principale del nuovo regime e del governo di Nouri Maliki, al potere dal 2006 e a più riprese accusato dai suoi oppositori di derive autoritarie e soprattutto di favorire la polarizzazione dl Paese lungo linee etnico-religiose.

E’ per questo carattere sempre più evidente del conflitto, che il dato più rilevante degli ultimi giorni è stata la mossa di Teheran di dirsi disponibile a ragionare con gli Stati Uniti sulla situazione irachena. E cercare qualche soluzione, anche se, per il momento, si dica da entrambe le parti, che non potrà essere di tipo militare. Mossa inaspettata quella di Teheran, perché diretta a dialogare col peggior nemico di sempre, gli Stati Uniti, e mossa inaspettata anche quella del sottosegretario di Stato John Kerry che dichiara che Washington è disponibile e confrontarsi con un Paese da sempre inscritto nel club dei “pigs” e nella lista nera dei nemici, per la questione del nucleare. L’inaspettato in politica, come sempre, ha però spiegazioni non inaspettate. Per l’Iran la mossa è dettata dalle ragioni di fondo di una potenza regionale in crescita, a larghissima prevalenza sciita, che ha tutto da guadagnare dal mantenimento al potere dell’Iraq dello sciita Maliki. Teheran ha infatti pragmaticamente già inviato a Baghdad un gran numero di guardiani della rivoluzione, a protezione della capitale e delle città sacre sciite del meridione.

I colloqui urgenti, già predisposti per questa settimana per il negoziato sul nucleare iraniano, – un disgelo si era infatti già avviato dopo l’elezione a presidente, nel 2013, del moderato Hassan Rouhani – offriranno dunque l’occasione anche per un confronto sulla questione irachena.

Siamo all’incerto finale di partita di una guerra, quella contro l’Iraq di Saddam Hussein, costruita più di undici anni fa in nome della sicurezza occidentale, anzi mondiale, per farla finita, così pontificava Bush junior, con gli “Stati canaglia” e con il terrorismo internazionale di al Qaeda. Per Bush, presa Baghdad, la guerra era ormai vinta e così l’aveva annunciata, in pompa magna, al mondo. Ma subito dopo era ricominciata, con ferocia, determinazione, distruzioni di ogni tipo e in ogni dove. Sembrava di nuovo finita, molti anni dopo, e le truppe americane hanno lasciato il campo, sperando che le forze di sicurezza locali, addestrate dagli specialisti di cose militari del Pentagono, fossero in grado di reggere alla nuova situazione che si determinava con il ritiro dei marines. Ma si sapeva che il Paese non era affatto pacificato, che al nord e nelle zone di confine con la Siria, i miliziani jihadisti dell’Isis spadroneggiavano, aspettando soltanto il momento migliore per riprendere l’offensiva. E le opzioni che Obama ha di fronte, a questo punto, hanno tutte le caratteristiche che un lascito di guerra così pesante e l’insieme di interessi geostrategici così condizionanti rendono inevitabili. A cominciare dai droni?

 

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