Iraq, non gettare altra benzina sul fuoco
Armare i kurdi o non armare i kurdi? Oggi le Commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato verranno convocate per discutere la proposta già avallata dal Consiglio Europeo dei Ministri degli Esteri in un summit convocato d’urgenza a Ferragosto su richiesta di Italia e Francia.
Per affrontare correttamente questa discussione va anzitutto delineato il quadro delle responsabilità pregresse. Il disastro attuale ha origine dalla gestione nefasta della vicenda irachena da parte degli stessi governi occidentali che oggi si propongono di armare i curdi. Due guerre nel Golfo (1991 e 2003) con la promessa di stabilita’ e rispetto dei diritti umani hanno invece aperto il vaso di Pandora delle nuove guerre e del terrorismo fondamentalista. Sono quegli stessi governi che -dopo aver gestito in modo irresponsabile il periodo post bellico in Iraq- vorrebbero ora fermare l’Isis, ignorando il ruolo determinante dell’Arabia Saudita che protegge e foraggia l’armata islamista e che – mentre a parole sostengono i curdi- hanno per anni tollerato la brutale repressione dei curdi.
Detto questo, passiamo all’oggetto specifico del contendere. Forte è la condanna e l’orrore di fronte alla persecuzione di migliaia di civili inermi da parte delle truppe dell’ISIS. Non possiamo restare indifferenti rispetto a questa tragedia. Anzi. Armare i pershmerga kurdi come linea di difesa contro l’avanzata delle forze di Isis, significa però lasciare loro il compito di fare ciò che dovrebbe essere compito di una forza di polizia internazionale sotto l’egida delle Nazioni Unite. Insomma, allontanare ancora una volta, come se la tragedia di Gaza fosse ormai relegata alla storia, l’urgenza di mettere mano ad una profonda riforma del sistema delle Nazioni Unite, per dotare l’ONU di una capacità di intervento anche armato se necessario volto a difendere civili inermi (come nell’eventuale caso irakeno), o operare come forza di interposizione tra parti in conflitto (come nel caso eventuale di Gaza, sulla scorta dell’esperienza di Unifil in Libano ad esempio).
Vi è poi un altro aspetto che riguarda l’applicazione del principio di precauzione, che riguarda le conseguenze – causa anche il riarmo dei peshmerga -di una possibile dissoluzione dell’Iraq. Non è’ in questione il principio di autodeterminazione dei curdi (che i governi occidentali hanno sempre negato). Il rischio invece è che si affacci la possibilità di una separazione del Kurdistan iracheno che niente ha a che fare con l’idea di un’entita’ confederale transnazionale che ricongiunga in questo modo i curdi che vivono in Turchia, Iraq e Siria. Insomma il progetto di autonomia democratica proposto da Ocalan. Oltre a creare ulteriori elementi di grave destabilizzazione nell’area, una tale eventualità sarebbe in contraddizione con il sostegno ad un governo di unità nazionale in Iraq post-Maliki che coinvolga a pieno titolo i sunniti.
E poi, armi e munizioni servono a prosciugare il brodo di coltura nel quale oggi cresce il fondamentalismo armato di ISIS? Si badi bene, un fondamentalismo che è radicato anche nel persistente senso di frustrazione e abbandono nel quale hanno vissuto e vivono le popolazioni sunnite. Isis non è solo una formazione armata, in molte aree rappresenta l’ordine, lo stato, dove fino a ieri lo stato non c’era o era una minaccia costante per le popolazioni sunnite. La scelta di armare i curdi sembra l’ennesima scorciatoia che prelude ad un male peggiore di quel che si pretende di curare.
SI dice: finalmente l’Europa avrebbe parlato ad una sola voce autorizzando i paesi membri a inviare armi e aiuti militari. Si può controbattere, che i paesi membri sono liberi di scegliere come contribuire anche e solo con aiuti umanitari, come deciso da alcuni governi, Ed allora, l’Italia – piuttosto che porsi come capofila tra i paesi che hanno spinto per l’invio di armi ai “guerrieri” peshmerga – potrebbe fare la propria parte in altra maniera. O forse si vuole dare una prova “muscolare” prima del 30 agosto quando il Consiglio Europeo dovrà discutere delle nomine , tra cui quella dell’Alto Commissario in sostituzione della Baronessa Ashton? La decisione di inviare armi (non è chiaro che armi e di che provenienza) alimenterà ulteriormente la produzione di armi da parte di un’industria sempre florida (violando magari la legge 185 sul commercio delle armi) o servirà al limite – se le indiscrezioni pubblicate da qualche giornale risultassero vere – a disfarsi di vecchi stock di armi russe sequestrate anni ed anni or sono ad un mercante senza scrupoli. Con il rischio che tali armi possano poi cadere in mano dell’Isis o di altre formazioni paramilitari locali. Invece bisogna immaginare altre modalità di sostegno non armato per i civili e per la costruzione di corridoi umanitari per la loro protezione. In Iraq non c’è soluzione militare alla guerra in corso. Si dovrà ridare voce alla politica ed alla diplomazia, attraverso il sostegno alla partecipazione dei sunniti nel nuovo governo di Bagdad, una trattativa diretta con l’Arabia Saudita affinché interrompa il proprio sostegno a ISIS. L’Europa e la presidenza di turno italiana piuttosto che decidere di inviare armi, si sforzino di ridare un ruolo alle Nazioni Unite (il cui Consiglio di Sicurezza ha di recente adottato una risoluzione contro l’ISIS) chiedendo la convocazione di una conferenza che metta attorno ad un tavolo i principali attori regionali Turchia, Iran ed Arabia Saudita compresi, e lavorando fin da subito alla creazione di corridoi umanitari per la protezione dei civili. Insomma ridare voce alla politica ed alla diplomazia e non alle armi, proprio come ha esortato ieri l’altro Papa Francesco di fronte al dramma irakeno. Niente guerra o bombardamenti, ha aggiunto, ma altre modalità per fermare l’aggressore ingiusto. Il governo italiano lo ascolti.
Commenti
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