Sei in: Home › Attualità › Notizie › Israele e Palestina: cronache di un viaggio
Martedì, 6 maggio 2014

Israele e Palestina: cronache di un viaggio

scotto

Impossibile sapere se e quando si riavvieranno i negoziati di pace, né chi saranno i protagonisti definitivi. Troppi appuntamenti mancati, troppi stop & go, troppe condizioni insormontabili sulla strada di un’intesa possibile. Siamo stati per cinque giorni a Gerusalemme con una delegazione di SEL guidata da Nichi Vendola: da un osservatorio privilegiato abbiamo avuto la possibilità di confrontarci con i protagonisti politici e della società civile israeliana e palestinese, cercando la strada del dialogo con tutti, avendo come primo obiettivo ascoltare e capire.

Perché nei giorni in cui naufragava il Piano Kerry e Abu Mazen siglava l’accordo di riconciliazione con Hamas, riportando anche Gaza sotto l’ombrello dell’Anp, noi eravamo lì a testimoniare che l’Europa non può dimenticare che se c’è pace a Gerusalemme, c’è pace in Medio Oriente. Abbiamo visto il volto più crudo del Muro che separa popoli, aspettative e speranze nel campo profughi di Al Aida, abbiamo partecipato alla commovente celebrazione allo Yad Vashem nel sessantanovesimo anniversario delle vittime della Shoah, abbiamo incontrato la fatica del Presidente Abu Mazen impegnato ad invocare la non interruzione del processo di pace, abbiamo dialogato con l’opinionista progressista Meron Rappaport, che delinea un piano di pace alternativo fondato sulla binazionalità e non più sull’imperativo, ancora attuale, dei “due popoli, due stati”, abbiamo condiviso la richiesta degli arabo israeliani di una maggiore tutela dei diritti delle minoranze, a fronte di una destra che ancora propugna l’idea dello Stato ebraico come elemento di separazione, abbiamo condiviso con la sinistra israeliana in tutte le sue sfaccettature ed articolazioni l’idea di una nuova coalizione progressista per la pace, abbiamo conosciuto la variegata e ricchissima attività culturale della comunità italiana in Israele ed abbiamo rinnovato il sostegno alla campagna per la liberazione di Marwan Barghouti, partita da quella cella di Robben Island in cui Nelson Mandela trascorse la maggioranza della sua vita per la lotta contro l’Apartheid.

foto 3

Non è vero che le due società non possono parlarsi, non è vero che non esiste un filo rosso a legare la generazione più giovane palestinese con quella israeliana: i diritti, il bisogno di eguaglianza e di giustizia, la voglia di non vivere separati da confini interni sempre più anacronistici in un mondo interdipendente…

Ma l’appuntamento più interessante, quello in cui capisci in maniera evidente la follia del conflitto, si chiama Hebron. Nessuno al mondo può credere che esista una città fantasma, che esista un luogo all’interno del quale convivono tante contraddizioni e tante potenziali micce esplosive. La tensione l’avverti immediatamente entrando ad Hebron, la seconda città ritenuta sacra da Israele per il suo ospitare la tomba di Abramo: è lì che alla fine degli anni Sessanta un gruppo di coloni ha iniziato ad occupare militarmente pezzi della città vecchia, impiantando piccoli insediamenti successivamente diventati veri e propri quartieri.

È lungo la linea che spacca Hebron in due zone che si comprende il senso più autentico del conflitto, l’essenza stessa della dinamica che porta chi crede di essere portatore di un messaggio millenario a ritrovarsi nel ruolo di carceriere e chi vive lì da secoli costretto nella condizione di incarcerato a casa propria, senza che nessuno lo abbia cacciato ma con la percezione autentica di centimetri di vita che pian piano vengono sottratti.

Chi non vede Hebron non può capire fino in fondo cosa significhi una città divisa, la cui vita quotidiana è spezzata per una larga parte di popolazione. Da quasi venti anni insiste una missione internazionale denominata Tiph (Temporary International Presence Hebron) su quel territorio, a cui partecipano 6 Paesi, tra cui il nostro, che si occupa del monitoraggio dei diritti umani in quella H2 (Hebron 2) che e’ il 20% della città vecchia, dove abitano i coloni, dove per entrare hai bisogno di superare un minicheckpoint.

1000 soldati israeliani fanno la guardia a 800 coloni in un territorio dove la maggioranza arabo palestinese è schiacciante. Ogni tanto viene occupato uno stabile e viene impiantata una colonia, e la sensazione è che gli stessi ebrei ortodossi finiscano per essere i carcerieri di se stessi. In base ad un diritto che viene rivendicato, in quel luogo sacro che è anche uno dei luoghi più poveri della Palestina, si impiantano e fanno la loro vita comunitaria. La coabitazione impossibile la intravedi subito nel suk, dove si svolge la vita commerciale della maggioranza della popolazione: alzi lo sguardo in alto e scruti delle reti di protezione distese lungo tutto il mercato, separandolo dalle abitazioni dei coloni ed impedendo rischi di lancio di oggetti o sassaiole.

Lo vedi in alcune strade dove abitano arabi, ma le bandiere israeliane cingono tutti i palazzi con cartelloni con su scritti messaggi sul motivo per cui quella terra sarebbe israeliana ed è quindi legittimo impiantare delle colonie murando vivi gli arabi dentro appartamenti completamente chiusi all’esterno, senza finestre e con ringhiere alte due metri che coprono integralmente i balconi. Parlando con i nostri bravissimi carabinieri della Tiph, che ci hanno accompagnato nella visita in zona H2, abbiamo riscontrato la fatica di un impegno che nel corso degli ultimi anni, facendo i conti con il peggioramento delle condizioni della convivenza, ha visto aumentare i conflitti tra giovani palestinesi e soldati israeliani schierati a protezione delle colonie, come anche molti dei loro rapporti confermano. Abbiamo la necessità di aprire una riflessione sul ruolo di quella missione che ha svolto una funzione importantissima nel corso degli anni per far conoscere lo stato dei diritti umani in quell’area; ma soprattutto occorre riaprire un dibattito sulla funzione di una presenza internazionale che non si limiti al monitoraggio, ma che riesca ad assumere un compito di protezione più concreta per le popolazioni a rischio.

Da più parti emerge ormai la consapevolezza che per una soluzione negoziale definitiva occorra anche una mobilitazione internazionale, che preveda il dispiegamento di truppe militari con funzioni di peacekeeping, ed il presidente Abu Mazen parla addirittura di una presenza Nato. Il tema in ogni caso è sul tappeto, e fare presto non è solo questione di tempo: è l’unico modo per evitare che il conflitto israelo-palestinese esca definitivamente dall’agenda politica dei Governi.

Commenti

  • Ospite n.1

    Hebron: interessante la dimenticanza… 1929, la comunità ebraica della città, comunità vecchia di duemila anni, non recenti “colonizzatori” sionisti, viene aggredita. Quasi 70 morti, molti feriti, molte donne violentate. Poi l’intera comunità venne “trasferita” a Gerusalemme. Si chiama “pulizia etnica” e fu la prima volta che accadde in Palestina. Poi gli ebrei sono tornati dopo la guerra del 1967 e da allora la situazione è quella che è. Ma fare finta di dimenticarsi la storia non aiuta certamente la comprensione fra popoli ostili.