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Mercoledì, 30 luglio 2014

Israele ha trasformato l’acqua in un’arma. Ma La sete non è un problema solo dei palestinesi

A Palestinian Bedouin child drinks water from a pipe near his tent on the road between Jericho and Ramallah

Nel vicino 2009 un profetico Lester R. Brown, fondatore e presidente dell’Earth Policy Istitute e del Worldwatch Istitute, scriveva nel suo libro “Piano B 3.0 – Mobilitarsi per salvare la civiltà” un capitolo dedicato all’emergenza idrica che gli Stati del nostro pianeta presto si sarebbero trovati ad affrontare dato il triplicarsi della domanda d’acqua negli ultimi 50 anni ed il crescente aumento demografico che vede l’Onu stimare nel prossimo 2025 l’anno in cui gli esseri umani sulla terra raggiungeranno gli 8 miliardi.

Gli acquiferi di molti Paesi sono sotto incessante stress e sfruttamento da parte dei governi che cercano di soddisfare da un lato il fabbisogno giornaliero dei loro cittadini e dall’altro la continua richiesta d’acqua necessaria per l’irrigazione delle colture. I livelli d’acqua dei pozzi freatici dislocati sull’intero globo si stanno abbassando nelle aree con densità demografica maggiore e nei paesi produttori dei tre cereali principali (grano, mais, riso) ossia India, Cina e Stati Uniti. Inoltre l’innalzamento delle temperature vede ogni anno la riduzione dei grandi ghiacciai che garantivano nella stagione secca continuità ai grandi fiumi (come l’Indo in Pakistan dipendente dalle vette del Himalaya) e che assicuravano irrigazione e riserve idriche a vasti territori, allontanando da essi il rischio di siccità.

Dimostrazione più evidente di tale crisi è l’inizio di trivellazioni alla ricerca di acqua che perforano per la prima volta il terreno al di sotto dei 1000 metri (in Arabia Saudita si sono raggiunti i 1200 metri di profondità e nello Yemen i 1800 metri) e l’abbassamento del livello dei pozzi che dovrebbero sostenere la rete idrica delle città con alta densità di abitanti (Islamabad e Rawalpindi insieme a Città del Messico vedono abbassare il livello dei loro pozzi di 1-2 metri l’anno).

Ma l’ombra della profezia di Lester R. Brown è riscontrabile quando sottolinea che molti Paesi tra cui Israele, il quale pur essendo un “pioniere per le tecniche di aumento della produttività dell’acqua a usi irrigui” era riuscito a ridurre drasticamente il livello dei suoi due pozzi principali condivisi con i palestinesi, presto, per la contendibilità delle riserve idriche, avrebbero riacceso dispute e creato nuove diatribe per una delle fonti di vita primarie dell’essere umano.

Oggi la guerra israelo-palestinese è nel pieno del suo drammatico svolgimento e la denuncia dello scrittore di origini palestinesi Elias Akleh è chiara e rivela la violenza della discriminazione d’accesso alle risorse idriche che Israele applica nei confronti del popolo della striscia di Gaza. Nel 1995 con gli accordi di Oslo (che avevano durata solo di 5 anni) si pensava che fosse possibile creare le condizioni di cooperazione per la sfruttamento delle falde acquifere da parte dei due popoli ma presto ci si rese conto che se di suddivisione si parlava essa stava legittimando uno sfruttamento pari all’80%, del potenziale della principale falda acquifera montana, da parte di Israele mentre solo il 20% della stessa falda veniva sfruttata dalla popolazione palestinese. A guerra in corso la situazione è ancora più stringente.

Israele “ha trasformato l’acqua in un’arma di genocidio lento e graduale” denuncia Akleh lasciando il territorio palestinese con scarse forniture d’acqua. L’organizzazione Mondiale della Sanità raccomanda la fornitura di circa 100 litri d’acqua al giorno pro capite mentre ad oggi un palestinese stanziatosi nelle città riceve appena 70 litri al giorno e la stima della fornitura scende violentemente a 20-30 litri al giorno se prendiamo in esame un palestinese che vive in aree agricole.

“È stato stimato che il 44% dei bambini palestinesi nelle zone rurali soffrono di diarrea – la maggiore causa di morte dei bambini sotto i 5 anni nel mondo a causa della scarsa qualità dell’acqua e degli standard di igiene” continua Akleh.

Anche un rapporto dell’Onu rivela che le società israeliane Mekorot e Mehadrin praticano politiche restrittive d’accesso alle riserve idriche per i palestinesi dirottando la fornitura verso la Cisgiordania occupata. Inoltre già dal 2011 Israele aveva negato la costruzione di 35 pozzi agricoli (concedendone solo 3) nei territori Palestinesi e nello stesso periodo temporale l’esercito israeliano aveva demolito 89 strutture che consentivano la raccolta dell’acqua in Cisgiordania, comprendenti 21 pozzi, 34 cisterne e molti serbatoi rurali nella valle del Giordano.

Ad oggi però il rischio enorme per la salute del popolo palestinese risulta essere la mancanza di combustibile per il funzionamento della centrale elettrica di Gaza che blocca il trattamento ed il meccanismo delle acque reflue e delle pompe d’acqua. “Si stima che 89 milioni di litri di liquami scorrano ogni giorno nel Mar Mediterraneo ad aumentare il livello di nitrati in acqua, fino a sei volte superiore ai limiti dell’Oms di 50 milligrammi per litro. Questo contamina anche il pesce da cui molti palestinesi a Gaza dipendono come principale prodotto alimentare” scrive Elias Akleh. Intanto anche l’Onu dichiara che le malattie quali diarrea e epatite virale sono le principali cause di morbosità nella popolazione dei rifugiati della striscia di Gaza. Il 90% dell’acqua nella striscia è in sintesi non potabile.

Sebbene quella per l’accesso alle risorse idriche non sia di certo tra le principali ragioni del conflitto israelo-palestinese, che tutti noi condanniamo e ci auguriamo cessi immediatamente, sicuramente sta ponendo in seria evidenza come l’accesso ad una risorsa primaria come l’acqua, che tutti noi consideriamo ormai come “scontata”, non lo sia affatto.

Lester R. Brown, pensando ad una popolazione che cresce di 70 milioni di vite all’anno e che nel 2050 l’ONU stima raggiunga i 9,2 miliardi di abitanti, i quali necessiteranno quotidianamente sempre più in maniera insostenibile di acqua e di cibo (il raccolto in 50 anni è passato da 630 milioni di tonnellate del 1950 ai 2 miliardi di tonnellate nel 2000), chiede a tutti un cambiamento di rotta per non giungere in un futuro ad un tracollo della stessa civiltà ed attività antropogenica.

Se non ci mobilitiamo e non sensibilizziamo le popolazioni ed i governi ad un efficientamento del sistema idrico (nel 2009 dal Comitato per la Vigilanza sull’uso delle Risorse idriche del Ministero dell’Ambiente italiano arrivava la notizia al Sole 24 ore di perdite del nostro sistema pari a 2,6 mld di m³ all’anno) e ad un uso ragionevole e razionale dell’acqua, raggiungeremo entro il prossimo secolo il punto massimo in cui esso diventerà di scarso reperimento e con costi di utilizzo elevatissimi. L’Ipcc sostiene che nel 2100, se non si realizza una repentina inversione di rotta, saranno un miliardo le persone che si troveranno senza acqua nelle grandi città e ben 2 miliardi le persone sul Pianeta che vedranno bussare la fame alla loro porta.

Come sempre, dipende da noi. Nulla è ancora irreversibile.

 

 

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