Israele prigioniera di se stessa e la Palestina dimenticata
Diario di viaggio in Israele e Palestina.
Shimon Peres ci attende nel suo studio, nella sede della Peres Peace House a Tel Aviv. È la prima volta che riceve una delegazione istituzionale da quando non è più Presidente di Israele e si occupa di gestire le attività della Fondazione che porta il suo nome. Prevalentemente progetti sanitari in favore dei bambini palestinesi. L’incipit della discussione è emblematico di quello che ci troveremo ad affrontare. Peres rivendica l’intervento militare ed usa la stessa metafora che Amos Oz ha utilizzato in un’intervista pubblicata sull’Espresso, ovviamente giungendo a conclusioni diverse. “Cosa fareste voi se il vostro vicino si siede sul balcone con il proprio figlio sulle sue ginocchia e cominciasse a sparare verso la camera dei vostri figli?”.
Questa domanda è in realtà la serratura blindata di una porta che chiude la cantina in cui gli israeliani hanno segregato la questione palestinese. Non puoi discutere con chi spara sui tuoi figli, non puoi provare commozione per i figli del vicino che muoiono: pagano le colpe dei padri, non esiste un’occupazione della Palestina, non esiste la Palestina. È una grande rimozione collettiva in cui i contorni dei soggetti che stanno dall’altra parte del muro sono sfocati. Hamas, Iran, Hezbollah e Palestinesi sono la stessa cosa, rappresentano tutti una minaccia alla “Sicurezza” di Israele. Negli incontri che seguiranno, senza la retorica e lo spessore di una figura come Peres, tutto assumerà contorni più marcati e spesso disumanizzanti.
La società israeliana è assediata, vive nella paura, più del 90% della popolazione è d’accordo con l’offensiva militare, un 40% circa la ritiene addirittura insufficiente. Non si può non partire da qui se realmente si vogliono affrontare fino in fondo le ragioni di questo conflitto. Anche la sinistra, il Partito Laburista, sostiene l’intervento militare di Netanyahu: «Ha agito bene e nell’interesse del paese» ci confessa il segretario del Labour. Il resto è questione di sfumature, della maggiore o minore disponibilità a dialogare con Abu Mazen ritenuto da tutti interlocutore disponibile ma non affidabile, perché alla fine bisogna fare sempre i conti con Hamas. Il Muro con cui hanno rubato il 22% del territorio palestinese, Le Colonie (nel 2013 sono aumentate del 123% portando la popolazione israeliana in territorio palestinese a circa 600 mila unità), l’Occupazione e l’assedio di Gaza, le violazioni dei diritti umani è come se non esistessero. Chiediamo in più occasioni ai nostri interlocutori se non ritengono che le politiche messe in campo dal Governo Israeliano riducano la legittimità di Abu Mazen ed allo stesso tempo rafforzino Hamas, ma la risposta è sempre la stessa: «A Gaza non ci sono colonie, quello è un pretesto, Hamas vuole distruggere lo Stato di Israele».
È dentro questa rimozione collettiva che separa i due popoli che cresce la “Bolla di odio” di cui parla David Grossmann nel suo editoriale su Repubblica di qualche giorno fa. Il nemico invisibile si nasconde dietro ogni Palestinese, ognuno di loro rappresenta una potenziale minaccia, un potenziale terrorista. Anche la reazione all’idea di una forza di interposizione a guida europea sotto l’egida dell’ONU sul modello libanese dell’UNIFIL, proposta con insistenza da alcuni di noi, rivela questa ossessione. Il Ministro dell’Intelligence Stainiz ci dice chiaramente che di noi non ci si può fidare, che Israele ha deciso che si difenderà da sola anche perché noi siamo responsabili di 6 milioni di morti con l’Olocausto.
Rivendicano il diritto a difendersi e accusano l’occidente di ipocrisia: “Noi per difenderci dai razzi di Hamas, che usa i civili come scudo, abbiamo avuto dei danni collaterali” – così sono definiti i 2000 Palestinesi morti nell’offensiva militare – “Quanti civili avete ucciso voi in Kosovo, in Iraq e in Afghanistan?”. È morto un soldato: era figlio di Israele e la comunità piange i suoi figli. I figli dei palestinesi, 400 bambini uccisi in questo conflitto, qua non li piange nessuno. “Sono vittime di Hamas anche quelli” ci ricorda il Vice ministro degli Esteri. È in questo contesto che le forze della destra israeliana hanno vinto la loro partita. L’hanno vinta sul piano culturale prima ancora che politico, l’hanno vinta perché anche chi vuole la pace si è convinto che l’unico modo per averla è l’annientamento del nemico. E il nemico si nasconde ovunque, anche nella popolazione arabo-israeliana, la parte più emarginata della società. Loro non possono neanche svolgere il servizio di leva.
L’attuale Ministro degli Esteri Liebermann, capo di uno dei partiti dell’estrema destra israeliana, ha proposto di cedere ai palestinesi i territori a maggioranza araba e di contrattare l’acquisizione di territori occupati dalle Colonie. Cittadini di serie B, perché non sono di origine ebraica. Due popoli uno stato, in cui il concetto di cittadinanza ha, paradossalmente per la storia di questo paese, un principio razziale.
“Sono come noi, il nostro obiettivo è far conoscere alla popolazione questo dato” ci raccontano i pacifisti israeliani, una sparuta minoranza in un paese assediato dalla paura. Quel “sono come noi” nasconde in realtà un punto di partenza significativo: “Molti pensano che non lo siano”. Comunità, fratellanza, solidarietà, se questi valori fossero universali Israele sarebbe il faro della democrazia, ma si fermano dentro i confini della comunità ebraica e questo ne è il grande limite. Le ragioni di tutto questo sono riconoscibili. È vero, noi europei abbiamo un debito enorme nei confronti di questa comunità e loro hanno credito nei confronti dell’umanità, ma l’Olocausto non è il semplice rito della memoria, è una ferita che sanguina nella coscienza di ognuno di noi.
Ed è per questo che Israele non può essere lasciata da sola a combattere contro i suoi fantasmi. Hanno costruito la “Bolla di Grossmann” dentro cui sono prigionieri oggi Israeliani e Palestinesi. L’hanno costruita con l’occupazione, con le vessazioni inferte al popolo palestinese in nome della loro sicurezza. Le pareti di questa bolla sono rafforzate ogni giorno dall’ingiustizia che subiscono ogni giorno i palestinesi da Hamas e dal Governo Israeliano. Hamas e Governo Israeliano giocano una partita a scacchi sulla testa dei due popoli. È per questo che bisogna porre fine a tutto questo.
È per questo che l’Italia e l’Europa non possono continuare a tacere. Non possiamo guardare ancora mentre il futuro del Medio Oriente e del Mare che condividiamo resta appeso al filo della diplomazia egiziana. Dobbiamo proporre ad Israele di fare la nostra parte nella risoluzione del conflitto. Libermann, uno dei falchi della politica israeliana, ha aperto le porte alla possibilità che l’ONU prenda il controllo di Gaza. Non so se è un bluff, penso però che bisogna cogliere questa porta di ingresso e venire qui a metterci la faccia, perché la risoluzione della questione Israelo-Palestinese è la carta che la comunità internazionale può giocare per invertire la rotta delle politiche internazionali in Medio Oriente. Non bastano più generici appelli al cessate fuoco, né l’invito ad Israele ad essere più moderata nell’offensiva militare. Dobbiamo imporre ad Israele ed Hamas una soluzione politica. Bisogna mettere in campo tutti gli strumenti, quelli diplomatici ma anche quelli politici ed economici. A partire da un embargo sulle armi ad Israele finché quelle armi possono essere usate contro i Palestinesi.
La nostra visita in Israele si chiude con la visita allo Yad Va Shem, il memoriale dell’olocausto. Il tempio della memoria che custodisce il ricordo di 6 milioni di vite umane spezzate mentre una parte dell’umanità era girata dall’altra parte. Dobbiamo partire da qui se vogliamo realmente comprendere cosa accade in questo lembo di terra martoriato dalla guerra. Dobbiamo saper combattere i fantasmi di un passato che a volte sembra ritornare. L’antisemitismo ed il razzismo che attraversano la nostra società sono la malattia che bisogna curare prima che la “Bolla di Grossmann” si allarghi e imprigioni anche noi.
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