Istat, famiglie ancora in difficoltà, oltre 6 milioni senza lavoro. Cresce l’emigrazione, frenal’immigrazione. Sel: rapporto avvilente
Non emerge certo una fotografia positiva dell’Italia nel rapporto annuale 2014 dell’Istat. Dall’inizio della crisi 1,8 milioni di occupati in meno tra i 15-34enni. Le famiglie dove nessuno lavora e che potrebbero essere in difficoltà sono 3 milioni. Nuovo minimo storico per le nascite.
L’indicatore di povertà assoluta, stabile fino al 2011, sale di ben 2,3 punti percentuali nel 2012, attestandosi all`8% delle famiglie. L’Ente statistico sottolinea che la grave deprivazione, dopo l’aumento registrato fra il 2010 e il 2012 (dal 6,9% al 14,5% delle famiglie) registra un lieve miglioramento nel 2013, scendendo al 12,5%.Il rischio di persistenza in povertà, ovvero la condizione di povertà nell’anno corrente e in almeno due degli anni precedenti, è nel 2012 tra i più alti d’Europa (13,1 contro 9,7%). Si tratta di una condizione strutturale: le famiglie maggiormente esposte continuano a essere quelle residenti nel Mezzogiorno, quelle che vivono in affitto, con figli minori, con disoccupati o in cui il principale percettore di reddito ha un basso livello professionale e di istruzione. Il rischio di persistenza nella povertà raggiunge il 33,5% fra le famiglie monogenitori con figli minori. Nel Mezzogiorno è cinque volte più elevato che nel Nord, tre volte più elevato tra gli adulti sotto i 35 anni, due volte più elevato tra i disoccupati e gli inattivi.
A questo proposito il numero di disoccupati in Italia è raddoppiato. Dall’inizio della crisi, nel 2013 arriva a 3 milioni 113 mila unità. In quasi sette casi su 10 l`incremento è dovuto a quanti hanno perso il lavoro, con l`incidenza di ex-occupati che arriva al 53,5% (dal 43,7% del 2008). Dal 2008 al 2013 l’occupazione è diminuita di 984 mila unità (-973 mila uomini e -11 mila donne), con una flessione del 4,2% e un calo più forte nell`ultimo anno (-478 mila occupati).Se si considera l’insieme di disoccupati e forze lavoro potenziali, ammontano a oltre 1 milione le persone con almeno 50 anni che vorrebbero lavorare.
Tra gli over50 crescono sia gli occupati (1 milione 70 mila unità in più, +19,1%) sia coloro che vorrebbero lavorare e non trovano il lavoro (+261 mila disoccupati e +172 mila forze di lavoro potenziali, rispettivamente +147% e +33,4%), mentre diminuiscono gli inattivi che non cercano lavoro e non sono disponibili a lavorare (-448 mila, -4,1%).Il tasso di occupazione scende al 55,6% (dal 58,7% del 2008). Nel Mezzogiorno il calo è più forte (-583 mila unità, -9%), con il tasso di occupazione pari al 42%, a fronte del 64,2% del Nord e del 59,9% del Centro. Il calo dell’occupazione nei cinque anni è quasi esclusivamente maschile (-6,9% a fronte di -0,1% per le donne); tuttavia nel 2013 torna a calare anche l’occupazione femminile (-128 mila unità, pari a -1,4% rispetto al 2012).
Complessivamente, nel 2013 sono 6,3 milioni gli individui potenzialmente impiegabili. Aumentano anche gli scoraggiati, che tra le forze di lavoro potenziali sono 1 milione 427 mila individui. I giovani sono i più colpiti dalla crisi: i 15-34enni occupati diminuiscono, fra il 2008 e il 2013, di 1 milione 803 mila unità, mentre i disoccupati e le forze di lavoro potenziali crescono rispettivamente di 639 mila e 141 mila unità. Il tasso di occupazione 15-34 anni scende dal 50,4% del 2008 all`attuale 40,2%, mentre cresce la percentuale di disoccupati (da 6,7% a 12%), studenti (da 27,9% a 30,7%) e forze di lavoro potenziali (da 6,8% a 8,3%).
Cala la spesa per consumi. Molte famiglie che fino al 2011 avevano utilizzato i risparmi accumulati o avevano risparmiato meno (la propensione al risparmio è scesa dal 15,5% del 2007 al 12% del 2011) hanno ridotto i propri livelli di consumo nel 2012 per mantenere i loro standard. La contrazione dei livelli di consumo si è verificata nonostante l’ulteriore diminuzione della propensione al risparmio (pari all’11,5%) e il crescente ricorso all’indebitamento (nel 2012, le famiglie indebitate superano quota 7%).
Giù anche la spesa sanitaria. Nel 2012, la spesa sanitaria pubblica inoltre è pari a circa 111 miliardi di euro, inferiore di circa l’1% rispetto al 2011 e dell’1,5% in confronto al 2010. Durante la crisi, dal 2008 al 2011, le prestazioni a carico del settore pubblico si sono ridotte, compensate da quelle del settore privato a carico dei cittadini. Infatti, il valore della produzione pubblica (valutata a prezzi 2005) è rimasto invariato, mentre quello del settore privato è cresciuto dell’1,7%.
Cresce l’emigrazione, frena l’immigrazione. Secondo l’Istituto di statistica, nel 2012 hanno lasciato il paese oltre 26mila giovani tra i 15 e i 34 anni, 10mila in più rispetto al 2008. Guardando all’ultimo quinquennio, complessivamente a lasciare l’Italia in cerca di opportunità di lavoro sono stati 94mila. In generale nel 2012 gli emigrati sono stati 68mila, il 36% in più del 2011, “il numero più alto in 10 anni”. La crisi frena anche gli immigrati. Nel 2012 gli ingressi sono stati 321mila, con un calo del 27,7% rispetto al 2007. Aumenta invece il numero di stranieri che se ne vanno (+17,9%).
«Il rapporto Istat 2014 è avvilente e deve riportare tutti con i piedi per terra: il paese è in piena stagnazione e se non si cambiano immediatamente le politiche industriali e quelle sul lavoro si rischia di restare nella palude per sempre»: lo ha detto il senatore Luciano Uras, capogruppo di SEL in commissione Bilancio, che ha aggiunto: «Il dato secondo cui solo 3 imprese su 10 aumentano occupazione e fatturato è l’emblema di quanto poco si sia fatto per innovare e per restare competitivi a livello internazionale, con la conseguenza inevitabile della perdita di posti di lavoro. Se continuiamo ad attuare provvedimenti tampone, a comprimere i diritti dei lavoratori anziché incidere alla radice del problema, le persone rimaste fuori dal mercato del lavoro non riusciranno più a rientrarvi ed anzi aumenteranno sempre di più. L’Italia ha bisogno di un colpo di reni per risollevarsi: misure di giustizia sociale, politiche di redistribuzione della ricchezza e una nuova politica industriale non possono davvero più attendere».