La bellezza di Ingrao
Una intervista a Nichi Vendola del 30 maro scorso
Pietro Ingrao è un uomo, un intellettuale, un politico di grandissimo spessore che ha attraversato il Novecento, i suoi drammi e le sue contraddizioni. Un uomo di questa levatura è decisamente difficile da raccontare, non crede?
Pietro Ingrao è stato un protagonista davvero singolare della vicenda politica del Novecento. Attraversando i tornanti cruciali di un’epoca di ferro e di fuoco, la sua esistenza è stata come attratta irresistibilmente nel gorgo della grande storia, il suo cammino s’è fatto trincea e battaglia. La milizia politica è stata per lui e per un pezzo della sua generazione l’espressione naturale di un forte sentire morale, lo “stare eretti” dinanzi alla barbarie dei fascismi e della guerra. La sua inquietudine e curiosità e passione intellettuale è stata innanzitutto orientata – come tutti sanno dalla sua biografia – alla rappresentazione artistica, alla letteratura, al cinema: e cioè all’arte come strumento di incivilimento, come cognizione della bellezza. Poi a lui è capitato quello che è capitato a molti, di dover esplorare sentieri ben più impervi e rischiosi di quanto non fosse il lavoro creativo. Lo dico con i versi emblematici di Salvatore Quasimodo: “E come potevamo noi cantare/ con il piede straniero sopra il cuore/ fra i morti abbandonati nelle piazze/ sull’erba dura di ghiaccio, al lamento/ d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero/ della madre che andava incontro al figlio/ crocifisso sul palo del telegrafo?” La “canzone” di Ingrao sarà denuncia civile, lotta clandestina, lo stare da un parte. Insomma: una scelta di vita.
E, naturalmente, anche l’esperienza e l’esplorazione artistica, nella cifra della scrittura poetica o nella sfida del cinema, altro non erano che la costruzione di uno sguardo autonomo e libero sul mondo e sulla realtà. Penso alla grande lezione anti-retorica e anti-provinciale che fu il cinema del Luchino Visconti “neo-realista”, di cui fu collaboratore. Penso all’irruzione dell’omino buffo chapliniano, un anti-eroe che gioca a smitizzare i codici del potere e narra l’irriducibilità del fattore umano alla dimensione impersonale della merce o al comando totalitario di presunti super-uomini. Sono cose che Ingrao ha raccontato in pagine di straordinaria bellezza. E dunque il vecchio continente, nel suo cuore più evoluto e moderno, rovescia i sogni di progresso e libertà nell’incubo epocale dei “regimi reazionari di massa”: è tempo di cercare “il giusto, il buono e il bello” piuttosto che nelle forme dell’arte, nell’agire politico, nella ribellione organizzata. Non a caso la celebre poesia di Quasimodo si concludeva così: “Alle fronde dei salici, per voto,/ anche le nostre cetre erano appese/ oscillavano lievi al triste vento”. Ma non si può fare il mestiere della politica, alla maniera di Pietro Ingrao, senza tenere aperta questa dialettica forte e persino drammatica non solo (come è ovvio) tra pensiero e azione, ma tra l’agire nella dimensione pubblica e la ricchezza delle culture, dei saperi, delle produzioni intellettuali e creative che innervano l’immaginario collettivo, lo formano e lo deformano, lo provocano e lo accompagnano verso un futuro “inaudito”. La politica non diviene una forma d’arte, l’arte non diviene uno strumento della politica: ma la politica e l’arte competono tra di loro, talvolta fraternizzano, spesso si accapigliano, protendendo l’una e l’altra verso lo stesso obiettivo, la stessa destinazione: la bellezza, appunto.
Quindi non si capisce pienamente il politico Ingrao se non si capisce l’amore e la passione che aveva per il mondo dell’arte e del cinema, sua grande passione giovanile?
E’ proprio ciò che penso. Per lui i percorsi della libertà e della bellezza sono percorsi che si praticano con la conoscenza dell’arte e la creazione artistica, oltre che con gli strumenti della lotta politica. È come se andassero nella stessa direzione, senza però che la politica pieghi l’arte a finalità propagandistiche: come è nella vicenda dello zdanovismo e del cosiddetto “realismo socialista”. È un punto importante, perché questo “vizio” ingraiano di tenere una finestra sempre aperta sulla scena dei prodotti della creazione, sarà secondo me l’allenamento ad un comunismo non dogmatico. Oltre che una radice vitale dell’idea che la lotta politica è, per chi voglia rovesciare la piramide del potere, innanzitutto formazione culturale, capacità di immaginazione, coscienza storica, incivilimento, emancipazione dalle tenebre dell’oscurantismo, rifiuto consapevole della passività.
Queste tensioni, la tensione alla cultura e all’arte, al cinema come alla poesia sono anche elementi che compaiono nella critica che si fa a Pietro Ingrao: quasi fossero cedimenti, debolezze, che lo portano lontano dalla lotta politica. Lei, invece, sottolinea il valore aggiunto di questo desiderio di declinare in bellezza e in poesia anche la lotta politica.
Lui fa il politico, fa il giornalista, è un leader carismatico, una penna formidabile per profondità e chiarezza, un oratore travolgente, un “pedagogo” naturale. Quando attraversa le pieghe e le piaghe della storia, quando distilla politica dal dolore dell’umanità, lo fa con una dimensione prospettica, che sembra mutuata dal cinema. Nei suoi scritti c’è sempre il riverbero agostiniano dei “tre tempi del presente” (il presente del presente, il passato del presente, il futuro del presente), c’è sempre una dimensione spazio-temporale di profondità. E c’è anche il genio della zoomata sul dettaglio rivelatore. Ma io non sono un biografo di Ingrao, mi fermo qua.
Quando ha conosciuto Pietro Ingrao? Quando lo ha incontrato per la prima volta?
L’ho conosciuto quando avevo otto anni, nella mia Terlizzi, un bel borgo sanguigno nell’entroterra barese. Dico brevemente l’antefatto. Da Terlizzi, molti anni prima, erano partiti per Roma due miei concittadini, un prete e un professore. Il primo, don Pietro Pappagallo, fece della sua dimora un rifugio per ebrei e antifascisti. Il secondo, Gioacchino Gesmundo, da intellettuale mazziniano e comunista, fu il responsabile delle pagine culturali de “L’Unità” clandestina e fu, nel liceo di Rieti, insegnante di Ingrao. Entrambi finirono i loro giorni nella prigionia di Via Tasso e nel martirio delle Fosse Ardeatine. Ingrao venne dunque al mio paesello per commemorare un suo maestro. Una cerimonia solenne, dinanzi ad una platea di braccianti e di giovani, nel Cinema Ariston. Subito dopo a passeggio per il corso principale, a braccetto con papà, con mio zio, con altri dirigenti della locale sezione comunista.
Se chiudo gli occhi rivedo nitidamente papà e Pietro Ingrao. Una foto in bianco e nero. Papà emozionato, Ingrao affabile e sorridente. Quando li incrociai io ero dall’altra parte della strada e chiamai a gran voce. Attraversai, papà disse: “Questo è mio figlio piccolo”. Ingrao mi mise una mano sulla testa, mi diede una carezza e mi disse: “Preparati a diventare un buon comunista”. Questo aneddoto (correva l’anno 1966) ha accompagnato l’intera mia vita. Era l’anno in cui Ingrao ruppe l’unanimismo del gruppo dirigente e rivendicò la “cultura del dubbio” e il diritto al dissenso. Ho avuto modo tanti anni dopo di raccontargli quel momento terlizzese, quella frase d’un altro cosmo e d’un’altra era. Ingrao mi ha solo detto, con un sorriso sornione: «Oggi non te lo direi più».
Cosa intende per lei Pietro Ingrao quando dice «buon comunista»?
Credo che significhi stare da una parte senza smarrire la conoscenza di quello che sta oltre il tuo spazio, oltre il tuo luogo. Essere comunista significa scoprire il mondo, dargli dimensione storica, rifuggire da questo tentativo permanente di falsificazione della realtà presentandola come realtà naturale, raccontando l’ingiustizia, il dualismo tra ricchezza e povertà, la violenza di classe come se fossero la fenomenologia naturale di quell’uomo lupo dell’uomo che sembra quasi alludere al corredo genetico del genere umano. Offrire il senso della storicità dei rapporti sociali e dei rapporti di produzione significa rendere credibile l’idea del cambiamento.
Basti pensare a quante cose “erano” naturali (nel senso che tali apparivano) quando io bambino ho conosciuto Ingrao e quanto è cambiato il mondo in questo lasso di tempo: perché è cambiata la coscienza dei soggetti e dei diritti, è cambiata la coscienza storica delle forme con cui organizziamo la vita sociale. In questa nostra epoca, che facciamo fatica a collocare nella dimensione diacronica della storia, sono accadute tante cose che potrei definire inaudite, proprio nel senso di “mai udite”. L’irrompere della società di massa, il maturare dell’idea di libertà non come proiezione della proprietà, il pensiero della rivoluzione che piega il corso della storia per modificarne la qualità. Mentre mutavano tutt’intorno e si complicavano e si arricchivano le forme del dominio dell’organizzazione economico-sociale, l’espansione di un capitalismo che è insieme produzione di crisi e di stabilità. Sono accadute cose incredibili. Chi ha fatto politica ai tempi di Ingrao e con lo stile di Ingrao è stato uno scalatore di vette, ed è diventano un esperto di crepacci e di valanghe. Io penso che estrarre dalle storie le cose belle per farne un’apologia o le cose brutte per costruirne una denigrazione è sempre un’operazione metodologicamente scorretta. Nel caso di protagonisti che hanno la levatura di Ingrao, non avere la cognizione reale di quale sia stata la tempesta che hanno attraversato – quasi un secolo in tempesta – è sbagliato. Ingrao è stato un uomo dentro un tempo e dentro un campo. Senza quel contesto diventa difficile capirne il cimento e persino valutarne gli errori.
Fa riferimento alla vicenda dell’invasione dell’Ungheria da parte dei sovietici nel 1956 e all’editoriale comparso sull’Unità e firmato da Pietro Ingrao titolato Dall’altra parte della barricata. Un momento della sua vicenda politica sul quale lo stesso Ingrao fece una severissima autocritica.
Nel ’56 Ingrao offre la sua intelligenza a una lettura strumentale della vicenda ungherese, collocandola dentro la lotta manichea tra rivoluzione e controrivoluzione. Un errore di ortodossia. Non si può stare col partito contro il popolo, perché in questo cortocircuito si brucia il sogno e muore quello che Ernest Bloch chiama il principio-speranza. Tuttavia, siamo nei pressi di una svolta, perché c’è l’Ungheria, ma c’è anche il XX Congresso del PCUS, il processo della cosiddetta destalinizzazione, un annuncio di “disgelo” e la possibilità di non essere prigionieri di una lettura mitologica dell’Est e di un intero ciclo storico. Credo che cominci da lì un percorso che porterà Ingrao, nel tumulto degli anni Sessanta, a riflettere non sulle degenerazioni del modello sovietico, ma sulla natura di quel modello. Dunque, non sull’errore da correggere ma su un sistema malato e ormai irriformabile: diciamo pure sulla insopportabilità della tragedia dei gulag e del socialismo esportato con i carrarmati. Lo fa Ingrao insieme a un gruppo di dirigenti comunisti, tutti intellettuali raffinati e personalità di assoluta limpidezza morale, che furono considerati la parte più militante dell’ingraismo – Magri, Castellina, Rossanda, Pintor, Natoli, Parlato. Sarà la bella libertà e lo scisma del Manifesto…
Questo suo percorso ci porta, inevitabilmente, all’XI Congresso del Partito comunista italiano, quello del 1966. È il Congresso del dissenso di Pietro Ingrao, che, inoltre, si prende l’ovazione della platea davanti al gruppo dirigente comunista. Ma è anche il Congresso della sconfitta di Pietro Ingrao. Negli anni successivi il popolo comunista tributerà altre volte ovazioni a Ingrao, possiamo dire che sia stato uno dei leader più amati dai militanti del PCI. Tuttavia, Ingrao è sempre stato parte della minoranza del partito. La domanda è perché tutto questo amore non l’ha mai portato a prendersi il Partito, a diventare il riferimento della maggioranza dei comunisti italiani?
Perché lui considerava il Partito comunista italiano la risorsa fondamentale per la democrazia italiana, un presidio permanente a difesa del Paese e del suo percorso di fuoriuscita dalla palude del clerico-fascismo. Perché nella sua testa quella comunità politica e umana concretamente svolgeva un compito di costruzione di legami sociali consapevoli. Perché tutti i dirigenti comunisti venivano da un’idea del Partito come strumento della pedagogia di massa. Ma anche con una forte dialettica interna al gruppo dirigente, una dialettica però tutta rinchiusa e quasi occultata nel vertice: con il tempo abbiamo imparato che dietro la facciata dell’unanimismo, quel Partito fin dalla sua nascita è stato sempre non soltanto protagonista di una lotta politica esterna, ma anche di una lotta politica interna, che comincia dal ’21 e che non risparmia e non considera dissacrante perfino la contestazione dei leader storici. O forse che comincia nel 1892, con la nascita di un partito ispirato al socialismo. La vicenda PCI è molto più complessa e molto meno lineare di quanto non fosse nell’immaginario del popolo comunista. Basti pensare all’esilio politico di Gramsci in carcere, isolato dal suo Partito per le sue posizioni non allineate alla Terza Internazionale sul tema del socialfascismo. Una lotta politica che vedeva contrapporsi personalità di rilievo, grandi dirigenti anche temprati dalla lotta antifascista e talvolta dal carcere o dall’esilio, e che si svolgeva con modalità molto particolari. A volte la lotta politica si faceva scrivendo un saggio di storia, di critica letteraria, di analisi filosofica, di polemica scientifica. Ma per tornare a Ingrao, credo che in lui abbia funzionato sempre un “senso del limite”, una sorta di astinenza dalle pratiche di potere, un elemento di rigore morale che lo lega al pronome “noi” della sua comunità politica, quel noi quasi sacrale, fraterno e costituzionale, che rifugge il narcisismo e il solipsismo degli unti dal Signore dei sondaggi e dal sondaggio dei Signori. In quest’ottica organizzare una corrente avrebbe prospettato un eccesso di protagonismo fondato sull’“io” o fondato su un “noi” escludente, su un noi che diviene cemento di relazioni di potere.
Ho avuto sempre la percezione che l’ingraismo fosse un lievito non una corrente, e che avesse proprio l’ambizione di non definire vincoli di appartenenza. Perché ha pensato la politica come un fare e un pensare e un farsi e un pensarsi. Persino nella riflessione sulle forme dello Stato che fa dal CRS, nel modo di organizzare il lavoro con gli intellettuali e anche nel presiedere la Camera dei Deputati, è come se sfuggisse sempre ai processi di ossidazione di reti di potere. Come se la cristallizzazione nel ruolo o nella corrente fosse odorosa di morte e il profumo di vita, invece, fosse nel movimento. Fare le cose e guardarle, distanziarle, metterle a bilancio, collocarle in una sequenza storica, cercando sempre in questa ricerca di non smarrire la bussola e l’orizzonte.
Pensiamo a quando va, da presidente della Camera, dagli operai delle acciaierie di Terni: fa un discorso bellissimo, forte e cristallino, sulla Resistenza e sull’Italia che fonda la Repubblica sul valore-lavoro. Sostanzialmente dice loro che là si capisce il senso della Repubblica, della Costituzione e persino il senso del suo lavoro di presidente. Questo lo spinge a vivere quella traiettoria che era cominciata nel ‘66 con quel «io non sono rimasto persuaso» e che arriva negli anni della sua prima vecchiaia fino alla rivendicazione spigliata di un allargamento dello sguardo sul «vivente non umano», in un discorso che a taluno apparve “crepuscolare”, e che viceversa alludeva alle questioni brucianti poste dalle nuove soggettività costruite sulla questione di specie (diciamo pure l’ecopacifismo) e sulla questione di genere (diciamo pure la libertà e i saperi delle donne).
Pietro Ingrao è, innanzitutto, l’accoglienza delle domande del ‘68, la non riduzione del ‘68 a una dimensione di costume, di rottura generazionale, ma la comprensione di una domanda radicale sulla natura del potere e sulle culture che quel potere lo trasformano in feticcio e in “natura”, sublimandone la violenza e nascondendone la storicità. Il ‘68 è andare a osservare i vertici della piramide sociale, dove ci sono i saperi che accompagnano la riproduzione del potere reale, impacchettato dalla materialità del potere delle idee, del simbolico, delle moderne superstizioni. Un mio maestro diceva che non a caso Marx prima aveva scritto l’Ideologia tedesca poi Il Capitale, perché quest’ultimo è la descrizione della piramide sociale anche a partire dal vissuto di chi sta in basso, mentre l’Ideologia tedesca è andare a vedere quello che sta proprio in cima. I codici dell’egemonia e del dominio.
Sbaglio se dico che una delle parole centrale, o forse la parola centrale dell’ingraismo, è “molteplice”? Questo termine porta con sé il tema del dubbio, della ricerca e dell’attenzione per tutto il mondo che ci circonda e che non si cristallizza. Questa parola, “molteplice”, viene accostata anche un incontro particolare che fa Pietro Ingrao negli anni della clandestinità: quello con Aldo Capitini. Dunque, “molteplice” parola chiave dell’ingraismo?
È certamente una delle parole chiave del vocabolario dell’ingraismo. Ma, attenzione, è una parola che è anche rischiosa e scivolosa, perché può stimolare un eclettismo superficiale. Invece, secondo me, nella vicenda ingraiana il molteplice è l’impedirsi il vicolo cieco del pensiero unico, è il rifiuto dell’integralismo, l’interrogazione di ciò che sta oltre il tuo percorso, la scoperta degli altri percorsi, delle altre storie degli altri vocabolari. È, infatti, il movimento studentesco, innanzitutto, con quella domanda che riguarda il “capitale del capitale”: il sapere. Poi l’ambientalismo che, progressivamente, consente a Ingrao di leggere le tendenze del capitalismo non soltanto dal lato di quel prodotto finito che è l’alienazione degli esseri umani, ma anche da quello della pericolosità per i destini dell’umanità di un modello fondato sull’estrazione di ricchezza dall’impoverimento della natura. E, ancora, lo stimolerà tantissimo il femminismo con tutti i suoi percorsi.
C’è qualcosa che ha a che fare con un ripensamento delle categorie di “forza” e “debolezza”, che non immagina di pensare la forza come tutrice della debolezza o come prevaricatrice della debolezza, ma che immagina la debolezza come l’annuncio di una forza inedita e inaudita. In fondo, quando lui pone lo sguardo anche sul «vivente non umano» sta cominciando a mettere in crisi uno dei pilastri delle grandi narrazioni religiose e laiche: l’antropocentrismo. Poi è come se semine differenti ci portassero abbondanza del medesimo raccolto: la critica marxiana dell’alienazione e il personalismo cristiano sembrano centrare lo stesso tema, il valore ermeneutico di quel residuo umano che resiste a qualsiasi riduzione calcolistica, razionalistica, mercantile, utilitaristica: in quel residuo Ingrao coglie un annuncio, un segno di ostinata resistenza, una traccia di laica trascendenza. In quel residuo, quand’anche destinato alla sconfitta più aspra, c’è comunque un seme. Per quello il “dubbio del vincitore” è un varco necessario al muro della passività di massa, perché il vincitore di cui si parla è forse quello che ha trasformato l’ultimo pezzo del Novecento in un capitombolo del sogno, perché il vincitore è quello che ora vuole chiudere il gioco, o meglio cambiare gioco: non più destra e sinistra, ma sottomondo e sopramondo, velocità contro lentezza, vecchiezza contro giovinezza, mai più alternative di modello ma solo pavide alternanze di governi emergenziali, tecnocratici, decisionisti e populisti. Certo, quelli di noi che sono cresciuti immaginando l’assalto al cielo sono tutti testimoni di uno schianto, di una sconfitta che ha consentito all’avversario – la destra politica ed economica dell’intero mappamondo – di teorizzare che non era fallito solo un modello (il cosiddetto “socialismo reale”) ma che era fallita un’idea (cioè il comunismo, cioè la libertà dal bisogno). Dunque sono due le operazioni, intrecciate, totalmente politiche nella loro dimensione totalmente culturale, diciamo che sono due le gambe teoriche e politiche su cui può camminare la risposta ad una così drammatica domanda di futuro: bisogna guardare negli occhi la sconfitta della sinistra, che si porta nel grembo una spinta regressiva, una nuova speculativa redistribuzione verso l’alto della ricchezza prodotta dal lavoro. Guardare dentro al cratere morale che ha inghiottito la “diversità” berlingueriana nel fuoco del primato del mercato (mercato elettorale incluso). Bisogna contemporaneamente interrogare le nuove soggettività, che rivelano saperi e rivendicano spazi di vita e di agibilità democratica, che rinominano il mondo senza ridurlo ad un codice maschile, che ci indicano il paradigma della cura non come farmaco palliativo ma come riappropriazione dei “beni comuni”, che rifiutano l’invadenza del pubblico nella sfera più intima e privata (la sessualità, l’inizio vita, l’interruzione di gravidanza, il testamento biologico, la fecondazione assistita), e che denunciano la fuga del potere pubblico dal dovere di non regalare ai poteri privati le linee di indirizzo delle agende di governo. L’indice dell’opera politico-culturale di Pietro Ingrao è davvero come la filigrana del molteplice. Ecco i suoi temi. La fabbrica, la scuola, la sessualità, la relazione politica e le reti delle donne, la conversione ecologica dell’economia , la comunità come vivere solidale, l’interlocuzione con lo scisma anti-psichiatrico di Basaglia, la proposta luminosa di una riforma dello Stato che piuttosto che correggere pezzi di Costituzione a vantaggio del sovrano prova a ridisegnare le forme della statualità a vantaggio del popolo: nel senso, ovviamente, di rendere più efficiente il funzionamento della macchina statale, ma non riducendo quanto piuttosto allargando gli spazi della partecipazione, della democrazia dal basso. E poi quel chiodo fisso, quel rovello che lo porterà a polemizzare con le più alte cariche dello Stato: il dovere di osare la pace, la necessità di stringere alleanze di pace, invocare negoziati per il disarmo, porre al centro del cervello sociale e della sua formazione il pensiero della non-violenza. Ecco il molteplice: non un caleidoscopio di suggestioni, ma un “programma fondamentale” della sinistra del futuro.
Questo nostro incontro avviene nel giorno del secondo e terzo scrutinio per l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica. In queste prime tre votazioni, il suo partito – Sinistra Ecologia e Libertà – ha deciso di votare Luciana Castellina come Capo dello Stato. Ovviamente, una scelta fatta per celebrare una donna straordinaria e simbolo della sinistra italiana, ma possiamo dire che, dietro questa scelta, c’è anche un omaggio a Ingrao e all’Ingraismo?
Dell’ingraismo Luciana Castellina è stata la versione più capace di empatia con l’umanità a qualunque latitudine della Terra. Lei è stata veramente compagna di tutti i mappamondi del dolore, della ribellione, della dignità. È una donna curiosa e passionale, una reporter di rango, una analista essenziale, una radicale ma (quasi) mai una estremista, spesso sconfitta ma mai minoritaria, sempre capace di restituire alla politica il suo senso più intenso di “scoperta”, di attraversamento amoroso del mondo. Io ho sempre associato i leader comunisti italiani alla storia, alla grande storia. Luciana Castellina invece l’ho sempre associata alla geografia. Alla scoperta dei continenti. Al viaggio inteso anche come “educazione sentimentale” alla lotta politica. Dell’ingraismo Luciana ha incarnato un certo vitalismo, l’urgenza morale di farsi “di parte” e cioè partigiani, una libertà di giudizio assai poco esperta di conformismo e di pigrizia. Indicare per qualche giorno Luciana Castellina come la nostra “bella bandiera”, come più che degna dell’onore quirinalizio, è stato certo una dichiarazione d’amore per Luciana e un rendere omaggio a questa cosa caotica e sentimentale che chiamiamo ingraismo. Con lei è stato agevole per me interloquire, costruire sintonia umana, verificare “affinità elettive” nel modo di pensare la politica e anche nel modo di praticare il giornalismo. Insieme a lei ho vissuto l’esperienza straordinaria del quotidiano “Liberazione”. Con Ingrao invece per me è stato sempre complicato discutere. Per molti anni non sono riuscito a liberarmi da una soggezione patologica, spinta al punto da impedirmi di rivolgermi a lui dandogli del “tu”, ma neppure del “lei” o del “voi”. Gli ponevo quesiti impersonali. Persino nel sodalizio che nacque dal dissenso con la svolta della Bolognina, per me che entro nel mitico Comitato Centrale del Pci, non è mai facile tessere la relazione con Ingrao. Forse è difficile oggi per me spiegare da quale remoto evo proveniva la mia educazione e il mio pudore, ma da quel buco nero era attratta tutta la mia spavalderia. Allora come oggi Ingrao, con la sua complessa cosmogonia, mi fa pensare a un luogo rotondo, mescolato, plurale. Chiostro o cortile o agorà. Crocevia di parole e gesti utili a “restare umani”
E secondo te Ingrao come viveva questo confronto particolare con un ragazzo che non riusciva a chiamarlo? Quello stesso Ingrao che era capace di una grandissima empatia con le persone che ascoltavano i suoi discorsi dal palco.
È una persona che ti colpisce perché capisci che dà alla conversazione un grande significato umano, di dono. La vive con generosità. A noi ragazzi della Fgci si rivolgeva senza nessun tono di paternalismo: ci rispettava, ci interrogava, era curioso della nostra ricerca, delle nostre campagne. Non ho mai sentito nelle sue parole un qualche cenno di malignità o di rancorosità, una qualche nota di polemica personalistica, un sia pur minuscolo cedimento alla volgarità o al cinismo. L’ultima volta che sono stato a discutere con lui è stato due anni fa a casa sua. Mi ha offerto un pezzo di Novecento, oceani e continenti, sogni e disfatte. Nel profilo di Pietro Ingrao occorre considerare, nella densità del loro intreccio, sia la tempra del grande giornalista, sia lo spessore del saggista autentico, sia la finezza del letterato, sia la sagacia del politico, e tutto questo trasfuso in potenza comunicativa. È una delle ragioni del carisma di Ingrao: essere così colto nel discorso pubblico e così popolare nella dimensione dell’empatia autentica con la società. Pietro Ingrao è una personalità davvero speciale. Ma figlio e padre di una comunità politica e umana davvero speciale. Si pensi al fascino del suo storico antagonista, Giorgio Amendola. Le figure e le vicende di quel gruppo dirigente sono uno dei pezzi più belli della storia della democrazia italiana.
Prima delle elezioni politiche del 2013, Pietro Ingrao fece intendere che avrebbe votato e sostenuto il suo partito, Sinistra Ecologia e Libertà. Cos’ha provato quel ragazzo di 8 anni di Terlizzi, che doveva diventare un buon comunista quando ha sentito questa presa di posizione?Una grande gioia. Anche perché altri padri della sinistra sono stati avari e ingenerosi con i propri figli.
Pietro Ingrao a me ha insegnato che la lotta politica si fa non morendo nella manovra di palazzo e non inseguendo fumisterie ideologiche, ma mettendo in relazione i movimenti della società e l’azione della politica. E mi ha insegnato che la sinistra delle passioni tristi disseppellisce continuamente i morti, ma non parla ai vivi. Per questo Pietro continua a essere per me una bussola: appunto, essere radicali senza essere estremisti, essere pragmatici senza diventare cinici, essere nel potere senza essere del potere. Ecco, voglio concludere con questa parola, la parola potere. Io ho imparato questo da Ingrao, ho imparato a riflettere sulla ambivalenza della parola potere. Quando è un sostantivo e indica un luogo, il Palazzo (pasolinianamente con la p maiuscola) per me quella profuma di morte; quando è verbo è movimento: profuma di vita.
Io penso che dobbiamo lottare per il potere nel senso del verbo e questo si fa non rinunciando al sogno e non dimenticando l’incubo. La “profezia laica” che abbiamo chiamato comunismo, nella versione antistalinista dell’ingraismo, nella versione libertaria della sinistra comunista, non può che essere l’eterodossia di un sogno diurno. Un sogno a occhi aperti: costruire giorno dopo giorno, mattone su mattone, la comunità delle differenze e dell’eguaglianza.
Tratto dal libro “La certezza del dubbio: Pietro Ingrao raccontato da chi lo ha conosciuto” di Roberto Vicaretti. Edizioni Imprimatur
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Nik