La Convenzione di Istanbul non può restare lettera morta ne’ in Veneto, né altrove…
Il 1° agosto entrerà, finalmente, in vigore la Convenzione del Consiglio d’Europa “Sulla prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica”, approvata dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa il 7 aprile 2011 e aperta alla firma l’11 maggio dello stesso anno a Istanbul, da cui il nome, Convenzione di Istanbul.
Il trattato, firmato da 32 Paesi, si propone di prevenire la violenza nei confronti delle donne, di favorire la protezione delle vittime ed impedire l’impunità dei colpevoli e si qualifica come il primo strumento internazionale, giuridicamente vincolante, volto a creare un quadro normativo completo a tutela delle donne contro qualsiasi forma di violenza.
Com’è naturale, il contrasto alla violenza di genere necessita di importanti investimenti non soltanto in termini di risorse umane, ma di stanziamenti finanziari, come, d’altronde, stabilito dalla Convenzione di Istanbul, all’art. 8, che stabilisce: «le Parti stanziano le risorse finanziarie e umane appropriate per un’adeguata attuazione di politiche integrate, di misure e di programmi destinati a prevenire e combattere ogni forma di violenza rientrante nel campo di applicazione della presente Convenzione, ivi compresi quelli realizzati dalle ONG e dalla società civile».
Anche la regione Veneto, con la legge n.5 del 2013, “Interventi regionali per prevenire e contrastare la violenza contro le donne”, approvata all’unanimità dal consiglio regionale il 23 aprile, si è dotata di una legge specifica, la quale riconosce che “ogni forma di violenza contro le donne rappresenta una violazione dei diritti umani fondamentali alla vita, alla dignità, alla libertà, alla sicurezza e all’integrità fisica e psichica della persona” (art. 1.1), “promuove nei confronti delle donne vittime di violenza interventi di sostegno volti a consentire di ripristinare la propria inviolabilità e di riconquistare la propria libertà” (art.1. 2). A questo fine, “la Regione, in collaborazione con gli enti locali, le istituzioni, le associazioni e le organizzazioni che abbiano tra i loro scopi prioritari la lotta e la prevenzione alla violenza contro le donne e i minori […] promuove e favorisce l’attivazione di centri antiviolenza, di case rifugio e di case di secondo livello per donne vittime di violenza e loro figlie e figli minori” (art. 1.3)
All’interno di questo quadro normativo, il 13 ottobre 2013 la Giunta Regionale ha deliberato la concessione di contributi diretti a finanziare i centri antiviolenza stanziando complessivamente 400.000 euro per l’anno 2013. Cifra che, in realtà, appare irrisoria, soprattutto se si leggono i dati Istat, i quali segnalano che il Veneto è una regione dove il 34,% delle donne confessa di aver subito una violenza almeno una volta nella vita (la media è di sopra di quella nazionale che è del 31,9) e quelli relativi alle richieste d’aiuto arrivati al Coordinamento dei Centri Antiviolenza e delle Case delle Donne vittime di violenza, i quali ci dicono che nel 2013 si sono rivolte ai Centri del Veneto, 1240 donne (912 italiane e 328 straniere) e, nel primo semestre del 2014, il numero delle utenti ha già raggiunto le 800 unità.
A ciò si aggiunga il fatto, che nel 2013 la nostra regione ha conosciuto ben 4 femminicidi, i quali, come spaventose punte di iceberg, stanno lì a segnalare una violenza sommersa e, purtroppo, assai diffusa. I dati raccolti dall’Osservatorio regionale per le pari opportunità nel periodo 2009-2011, avevano, d’altronde, già evidenziato, che gli episodi di violenza erano in aumento. La legge regionale del 2013 era stata istituita, infatti, anche a fronte di tali allarmanti cifre.
La regione Veneto, tuttavia, sembra essersi dimenticata di tutto ciò e ha, così, deciso, con una scelta in controtendenza rispetto a quella di altre regioni quali la Lombardia, la Liguria o la Sardegna che, pur nelle ristrettezze di bilancio hanno confermato gli stanziamenti (si va dai 500 mila euro del Piemonte al milione e 490 mila euro della Sardegna) di dimezzare, per il 2014, i fondi per i Centri Antiviolenza: 200 mila euro totali da suddividersi per 10 per un totale di 20.000 euro a centro..!
Questi tagli rischiano di avere delle conseguenze davvero drammatiche anche perché i centri antiviolenza, non solo veneti, ma di tutta Italia, vedono minacciata a loro sopravvivenza, proprio da quel decreto “contro il femminicidio” (D.L.93/2013) che doveva tutelarli. (Ironia della sorte!) Dei 17 milioni di euro stanziati da questa legge, infatti, solo 2 milioni andranno alle strutture che accolgono e assistono le donne vittime di violenza. Insomma, un’inezia ridicola.
All’interno di questo scenario italiano, sabato 19 luglio, in tutte le città del Veneto, a scendere in piazza, per primi, per chiedere alla Regione di ripristinare, quantomeno, il finanziamento di 400.000 euro per l’anno in corso, sono stati, proprio, gli studenti universitari dell’U.D.U e quelli medi della Rete.
Erano lì quasi ad urlare, a noi adulti, che per prevenire e contrastare la violenza di genere bisogna investire energie e risorse e ripartire dalla Formazione, dalla Scuola e dall’Università.
A dirci che non possiamo svilire una rete di presidi fondamentali, che non possiamo permetterci di tradire la Convenzione di Istanbul, all’atto stesso della sua entrata in vigore.
Ognuno, allora, deve ri-cominciare a fare la propria parte: la società civile attuando una vera e propria rivoluzione etica e culturale, la politica stanziando risorse e adottando provvedimenti volti al contrasto e alla prevenzione della violenza di genere.
*Coordinatrice SEL Centro Storico e isole e componente dell’Assemblea Nazionale SEL