La lezione di Giovanni Lo Porto: la pace si costruisce con la giustizia
Io non conoscevo Giovanni Lo Porto, signor Ministro, anche se eravamo quasi coetanei e abbiamo vissuto nella stessa città per molti anni, anche se avevamo degli amici in comune e probabilmente ci saremo incontrati nelle tante manifestazioni per la pace che, negli anni in cui cominciava quella guerra in Afghanistan che lo ha portato alla morte, hanno attraversato la nostra città e le città di tutto il Paese e di tutto il mondo.
Ma oggi mi sembra di conoscerlo. Il suo volto così familiare è il volto di tantissimi eroi silenziosi che mettono a rischio la propria vita e si battono per portare pace e solidarietà a quei popoli che soffrono le guerre, soffrono per le calamità naturali.
Giovanni è una di quelle vittime, è l’ultima vittima di una guerra infinita, la guerra al terrorismo, che noi abbiamo dichiarato e che oggi dopo più di quindici anni ci impone di fare un bilancio su che cosa è stata questa guerra. Giovanni è una vittima collaterale di questa guerra al terrorismo. Così sono chiamate tutte le vittime uccise per sbaglio dagli interventi militari del nostro Paese, dagli interventi militari occidentali in quelle terre.
Giovanni è sicuramente vittima del terrorismo e, quindi, dell’altro fronte che noi combattiamo e che dobbiamo combattere. Ma onorare oggi la memoria di Giovanni significa fare una riflessione approfondita, capire che cos’è stato il nostro intervento in Afghanistan, guardare quali sono gli effetti della guerra, rispondere ad una domanda semplice: dopo quindici anni di interventi militari in quella parte del mondo e in tutto il resto del continente africano e dell’area medio-orientale il mondo è un luogo più sicuro ? Abbiamo costruito condizioni di sicurezza, di pace, di giustizia sociale per i popoli a cui volevamo esportare il nostro modello democratico ? E, soprattutto, abbiamo costruito un mondo più sicuro per noi ?
Penso che le risposte siano palesi, che questa sia una domanda retorica. No, le scelte di politica estera e di politica militare che sono state messe in campo hanno reso il mondo un posto più insicuro, hanno reso il mondo un posto in cui Giovanni Lo Porto può morire.
E, allora, penso che noi dobbiamo fare una riflessione, dobbiamo fermarci prima di andare avanti. Questo forse è il modo migliore per onorare la memoria di Giovanni Lo Porto. Dovremmo fare una riflessione sui nuovi sistemi d’arma, sui danni collaterali di questi sistemi d’arma. Su 415 strike fatti solo in Pakistan dai droni americani sono state uccise 4000 persone e di queste 1000 erano civili, 200 bambini, 1700 persone sono state ferite. È un bilancio che noi possiamo sopportare? Pensiamo che queste siano le condizioni con cui si può sconfiggere il terrorismo o probabilmente in quelle popolazioni, nel vicino Pakistan sono gli effetti collaterali di questa guerra che hanno creato l’humus su cui il terrorismo può crescere e proliferare ?
Onorare la memoria di Giovanni oggi significa anche questo: significa riflettere, significa pensare prima di parlare e soprattutto prima di agire. Davanti a noi si trovano sfide importanti: c’è la sfida della Libia e in questi giorni, proprio qualche giorno prima della notizia di Giovanni, si è parlato dell’utilizzo dei droni per combattere gli scafisti e i trafficanti di esseri umani in Libia. Noi pensiamo di poter tollerare o sopportare altri danni collaterali ? Pensiamo che queste politiche siano in grado di risolvere il problema o di combattere realmente il terrorismo?
Penso che Giovanni ci ha dato una grande lezione. La lezione più grande di Giovanni è quella che ci dice che la pace si costruisce con la giustizia. Giovanni era là per costruire giustizia sociale, per portare la pace in questo modo. Io credo che noi dovremmo partire da qua. Se vogliamo costruire la pace, e questo è il miglior modo di onorare la memoria di Giovanni, dobbiamo cominciare a costruire la giustizia sociale in quei Paesi e in quei luoghi dove il terrorismo si annida. Questo è il miglior modo per fare la guerra al terrorismo.
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