La nostra sfida
Ovviamente è sbagliato immaginare che la contesa per un posto di europarlamentare comprometta un processo politico. La lista Tsipras e’ stata un’intuizione, un tentativo di raggruppare i pezzi variegati della sinistra all’indomani della diaspora che l’aveva colpita nel corso degli ultimi anni. Tuttavia, nel corso della campagna elettorale non è mai riuscita a decollare come soggettività politica compiuta, ha mandato messaggi contraddittori e asimmetrici all’elettorato, oscillando spesso tra un tardivo grillismo e una radicalita’ fine a se stessa.
Il collante principale se non unico e’ stato Alexis Tsipras, un dirigente politico di primissimo livello, capace di garantire con la sua profezia un’uscita intelligente alla crisi ventennale di un’europeismo della domenica afono che aveva aperto una prateria ad una tecnocrazia arida e priva di progetto. Un leader politico maturo, pronto a governare il proprio paese in una prospettiva sociale e democratica, che non va assolutamente ridotto ad un’icona da stampare sulle magliette o da sventolare nelle manifestazioni di piazza. Lo dico senza ironia, ma penso che dobbiamo assumerci la responsabilità, se abbiamo ancora con i piedi piantati per terra, di nominare i limiti culturali di un’operazione giusta, che pure ci ha dato la possibilità di superare il quattro per cento.
L’Altra Europa poteva divenire qualcosa di più di un semplice slogan. Il quesito non rinviabile in realtà e’ se esso appartiene solo al milione di voti che ci hanno premiato oppure se e’ un sentimento più diffuso ( e forse maggioritario) nel popolo italiano ed europeo. Nominare questo tema non significa rassegnarsi al fatalismo. Questa crisi cambia tutto, i codici di interpretazione della realtà, le lenti con cui guardiamo l’involuzione di una società civile europea che si rifugia progressivamente nelle paure e nei pregiudizi, il modo in cui le giovani generazioni orientano i loro valori, le loro domande di senso, persino i loro consumi e le loro ambizioni.
E’ presuntuoso sopravvalutarci. Noi siamo una piccola goccia nel mare della crisi della politica. E se non siamo nelle condizioni di analizzare questo limite andiamo fuori strada. E finiamo per non capire oggettivamente cosa e’ accaduto con il voto di affidamento (disperato, straripante e ultimativo ) al Pd di Renzi. E non comprenderemmo nemmeno l’incubo che ha assalito una parte di italiani, offesi dalla corruzione e dal malaffare, che avrebbero premiato Grillo se non avesse sollevato giudizi ed epiteti che richiamavano stagioni terribili della storia del novecento. E non leggeremmo, infine, nemmeno cosa accade oggi nel vecchio continente se non riflettessimo sull’egemonia dei riflessi condizionati delle casematte nazionaliste: l’Europa e’ apparsa prima come l’ultima spiaggia in un mondo diviso in blocchi, sull’orlo della guerra nucleare, successivamente invece si è’ presentata come l’angelo vendicatore di un benessere che aveva garantito welfare, lavoro, sicurezza, pace. E che alla fine non andava più bene: perché l’austerita’ contava di più degli esseri umani e delle loro vite. Dovevano diventare numeri, frammenti di Pil, particelle di debito, vittime di patti di stabilità e di fiscal compact. Ecco cosa in cosa dovevano trasformarsi i cittadini europei.
Cosa c’entrano questi pensieri sparsi con la scelta della Spinelli di rimanere a Bruxelles, dopo aver annunciato Urbi et Orbi che avrebbe rinunciato al seggio? C’entrano, eccome. Perché per cambiare il mondo non si può rinunciare al matrimonio tra etica e politica. Quello che ha animato l’impegno di una larga parte di democratici cristiani, socialisti, comunisti, liberali all’indomani dell’arcipelago lager e della guerra che aveva ridotti in cenere Parigi e Berlino, Roma e Bruxelles. Un afflato che ha avuto la capacità di rendere un trattato, un mercato comune e un Parlamento qualcosa di più di un’utopia concreta. Su questo Barbara Spinelli ha il dovere di offrire una risposta credibile. Altrimenti le sue rischiano di essere solo parole scritte sulla sabbia: suggestioni intellettuali che si fermano nelle redazioni di un giornale. La vita delle persone purtroppo e’ una cosa più complicata. Ed io credo che, in questo caso, bisognerebbe con attenzione, prudenza e delicatezza riflettere persino sulla tenuta morale di un pezzo delle classi dirigenti italiane. E del loro rapporto quantomeno singolare con la politica. Come se quella che si organizza, che si fa militanza, che si radica su un territorio piuttosto che in una fabbrica fosse esclusivamente un rottame del passato da contrastare, un “vezzo popolare” per chi ha passato una vita a raccomandare al mondo in che direzione dovesse andare, senza provare un minimo a cambiarlo, un impedimento fastidioso per chi considerava il senso comune come una bestia da governare dall’alto di una cattedra.
La sinistra deve cominciare a interrogarsi con più severità sulla qualità delle elites che provano a descrivere dalle colonne di qualche house organ come essa dovrebbe comportarsi. Attenzione, non voglio fare nessun richiamo al plebeismo di chi anche nel nostro campo vuole rottamare tutto, i professori in primis, ma penso che dovremmo cominciare a interrogarci di più su come funzionano i meccanismi di governo degli orientamenti e come, talvolta, la suggestione di un’editoriale o di un saggio condiziona le nostre scelte. Si tratta di strumenti necessari per avere chiavi di lettura utili e critiche, ma non sono ne’ la bibbia ne’ la risposta ai nostri limiti. Il rapporto tra intellettuali e politica ha sempre attraversato il dibattito a sinistra. Dagli anni settanta non esiste più l’intellettuale organico e continuo a considerarlo un fatto positivo. Ma la lotta delle idee non è mai venuta meno ed è stata aspra e senza esclusione di colpi. Talvolta ha prevalso l’autonomia del politico, che tanti guai ha provocato, provocando nei partiti l’illusione dell’onnipotenza, talaltra si è’ manifestata plasticamente una forma di subalternità dei partiti agli anatemi di chi ha smesso da tempo di coltivare l’esercizio necessario del dubbio. Oggi siamo di fronte per l’ennesima volta a questo bivio. E Sel ci è pienamente dentro. Il tema per noi non è fare una semplice autocritica. Risolveremmo ben poco. Magari ci metteremmo la mano sulla coscienza, ma senza sciogliere alcun nodo.
Oggi è il tempo, invece, per capire se abbiamo ancora una funzione. Non slegata da quello che si muove attorno a noi. Sicuramente non da quella parte di italiani che ha creduto davvero all’Altra Europa. Che non sono tanti, ma rappresentano comunque un patrimonio da preservare e a cui dare cittadinanza politica. Per noi oggi la domanda e’ se siamo ancora una comunità che può cambiare la politica, rilanciare la lotta per il cambiamento, esplorare nuove strade per garantire alla sinistra autonomia e visione. Io credo che lo spazio ci sia ancora. Ma riusciremo ad attraversarlo solo se ci libereremo dai sensi di colpa verso una parte di quei presunti ceti intellettuali che hanno poche lezioni da impartirci e molte sconfitte da trasferirci. E se avremo il coraggio di lanciare una sfida per rinnovare la politica ai tanti che continuano a guardarci con curiosità e simpatia.
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giovanni
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Guido