La Notte della Taranta, un pianto corale, un abbraccio di popolo.
Quando i tamburelli esplodono nel ritmo compulsivo che muove le gambe, che scuote i corpi, quando quella musica così carnale trasmuta in frenesia di una danza collettiva, quando il morso della taranta inietta nelle vene il desiderio e l’estasi del movimento, allora sembra che sia la terra a ballare, a sospingere dal basso la pianta dei piedi: ed è la terra che trema di festa e di allegria. Oggi che la terra ha tremato per davvero, schiudendo le proprie fauci e divorando le vite e i luoghi che davano storia o accoglienza a quelle stesse vite, oggi non è possibile sentire la festa – questa straordinaria epopea popolare che si rinnova nell’incanto salentino – se non come esorcismo della morte. La musica popolare, a ogni latitudine, racconta la fatica del lavoro e gli affanni di un’esistenza spesso amara e accidentata, ma anche la sfrontatezza degli amori e dei corteggiamenti, la bellezza nuda e povera dei propri borghi e della natura circostante, l’asprezza dello sradicamento per chi parte migrante, la dolcezza delle nenie sussurrate ai bambini. Ma oggi è come se la musica non potesse che suonare le campane del lutto che ha ferito, con la sua cieca furia, l’Italia dei piccoli presepi appesi sulle alture appenniniche. Oggi è uno spartito di morte e di dolore quello che abbiamo dinanzi ai nostri occhi, piangiamo ancora una volta le cento e cento storie spezzate dalla catastrofe che irrompe in una quieta notte di agosto. E il terremoto precipita dentro la nostra vita pubblica come il più cattivo dei rendiconti di un Paese che continua a ignorare la propria fragilità e la propria estrema vulnerabilità. Ed è proprio lo squarcio che il sisma produce, nelle cose e nelle persone, a offrirci la lezione cruciale: la bellezza (intesa come peculiare identità di un territorio, con la sua natura e cultura) non chiede celebrazioni retoriche ma rivendica il bisogno di cura, di messa in sicurezza. Urla a noi l’urgenza di interventi di radicale rigenerazione delle città, dei corsi d’acqua, delle coste, delle montagne. Ci obbliga a ripensare lo stile dello sviluppo e della crescita economica. Ogni cataclisma ha il potere non solo di devastare ma anche di disvelare ciò che precedentemente avevano prodotto la superficialità, l’incuria, la speculazione, gli abusi. Eppure ognuna di queste tragedie porta alla luce anche l’Italia del civismo, della solidarietà, del volontariato. C’è un’Italia migliore che meriterebbe più ascolto e più sostegno, non solo nelle parole roboanti che risuonano come uno stanco rito nei funerali. Mi piace ricordare che le canzoni popolari nate nelle campagne salentine sono anche inni di lotta, manifesti di dignità, come la colonna sonora di moltitudini che si danno calore e coraggio. Ed è bello che quest’anno la Notte della Taranta sia stata anche la notte del terremoto: per vivere la danza come un pianto corale, come un abbraccio di popolo. Una festa triste, per piangere i morti, per consolare i vivi.