La partita libica
Il quotidiano marocchino La nouvelle Tribune ha scritto sul suo sito che la cerimonia in programma a Rabat potrebbe rappresentare un passo storico decisivo per l’avvenire della Libia. Il tono è quello ufficiale delle grandi occasioni ma la realtà è forse più complicata e sfuggente, come sempre succede e mai come la realtà della Libia oggi fa intendere. E’ di queste ultime ore la notizia che l’appuntamento per la firma prima saltata, è stata rinviata a domani. Ma cosa accadrà ancora resta incerto viste le dichiarazioni dei presidenti dei due parlamenti rivali libici, Nouri Abu Sahmain del Congresso nazionale di Tripoli (Gnc) e Aguila Saleh della Camera dei Rappresentanti di Tobruk (Hor) che da La Valletta, a Malta, annunciano che pur avendo fatto progressi nelle trattative, non firmeranno l’accordo per un governo nazionale chiedendo ancora del tempo.
Di fatto in Marocco, più realisticamente, si prova a chiudere la prima fase del tortuoso e incerto cammino, da tempo intrapreso sotto l’egida delle Nazione Unite, per arrivare a un accordo che metta fine alla contrapposizione tra le parti, alla guerra civile che continua, al caos generale che domina, avviando il percorso atto alla formazione di un governo unitario di Libia. Entro 40 giorni ci sarà, ha annunciato il segretario di Stato John Kerry, e per chi saboterà gli impegni presi ci saranno sanzioni Onu. Il comunicato finale della Conferenza internazionale di Roma, che ha preceduto e preparato nei giorni scorsi la firma in Marocco, avverte anche che “I responsabili della violenza e coloro che impediscono e minacciano la transizione democratica devono essere chiamati a rispondere delle loro azioni”. Si vedrà, bisogna però subito dire, come tutto si deve vedere concretamente, quando il contesto della disputa ha i caratteri di quello libico.
Come è noto, i principali protagonisti del fino ad oggi irriducibile conflitto, e in certi momenti vera e propria guerra civile, sono stati i due governi formatisi in seguito alle tumultuose elezioni del 2014. I risultati del voto, tutt’altro che chiarificatori dei reali rapporti di forza tra le parti, hanno infatti accentuato gli scontri e le contrapposizioni, portando alla formazione di due parlamenti e due sedi di “potere esecutivo”, l’uno più filo occidentale – e per questo riconosciuto subito dall’Occidente – a Tobruk, l’altro in mano agli islamisti radicali, a Tripoli. Il tutto mentre si è andata rafforzando nel Paese la presenza dello Stato islamico, che implementa il numero degli adepti alla causa del Califfato nero e sembra essere arrivato non solo a Derna e Sirte ma a settanta km da Tripoli, nella stupenda Sabrata, sito archeologico di straordinaria bellezza e valore culturale, che rischia di fare la fine di altri tesori del mondo capitati sotto il tiro del fanatismo ideologico e del tornaconto affaristico dell’Is (La vendita dei manufatti archeologici di maggiore pregio fa parte del loro business).
L’inviato dell’Onu per la Libia Martin Kobler, che ha preso il posto del precedente inviato di Banki-Moon Bernardino Léon, (sospettato tra l’altro di non aver svolto adeguatamente il suo ruolo di supra partes nel contenzioso tra i due governi, e che oggi ricopre ruoli ben pagati di consulenza per gli Emirati arabi, di cui è nota l’ambigua politica nei confronti dei gruppi terroristi), si è dichiarato fiducioso, ma anche molto realistico nel giudicare lo stato delle cose. A conclusione della conferenza internazionale di Roma, Kobler ha infatti sottolineato che il treno libico è almeno partito – e già questo fa la differenza – ma nulla di più per il momento. Abbiamo il cessate il fuoco, l’impegno di ambedue le parti a dar vita ad un governo unitario e la promessa transizione di un anno per arrivare a una Costituzione. Ma, dice ancora Kobler, ci vorranno mesi, anni per una vera pace e una vera stabilità. E’ quanto le cronache per altro raccontano: un accordo sul governo unitario è stato annunciato più di sei volte e più di sei volte smentito dai fatti. Anche in questa ultima occasione alcuni esponenti delle due delegazioni parlamentari non hanno affatto taciuto il proprio disaccordo sulle conclusioni della conferenza – la fine del doppio registro di poteri “istituzionali” sul territorio metterà verosimilmente fine a qualche rendita di posizione – e se è vero che l’accordo ha l’appoggio della maggioranza di due Parlamenti, la minoranza che si oppone è soprattutto l’ala più militante, la più pericolosa perché pià autonoma e forse anche quella disposta a far saltare il governo di unità nazionale. Si vedrà.
Ma soprattutto e anche al di là della radicale ostilità politica che contrappone le due principali fazioni in campo, e che l’accordo non farà superare tanto facilmente, il punto di maggiore difficoltà per la transizione sta nel fatto che la Libia è attanagliata dalla presenza di altre decine e decine di fazioni, che spadroneggiano sul territorio, che hanno scoperto il valore politico del petrolio e non hanno nessuna intenzione di cedere tanto facilmente la loro porzione di controllo della ricchezza. L’unico reale condizionamento che forse potrà indurre a modificare gli approcci almeno dei due governi – e già sarebbe un passo importante – è quello derivante dall’espansione della presenza dell’Is, che rende tutto più difficile e problematico anche per loro. Forse questa minaccia ha permesso in queste settimane un punto di svolta un po’ più concreto.
Gli Stati Uniti, anche nelle parole di Kerry, sembrano avere messo tutto il loro peso di superpotenza per sostenere l’accordo per un governo libico di unità: è la politica di Obama, che è ben intenzionato a evitare – soprattutto in vista delle elezioni presidenziali – qualsiasi coinvolgimento di militari sul terreno. Per quanto riguarda il nostro Paese, il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni ha sottolineato il ruolo positivo dell’Italia, che, bisogna su questo dare atto al governo Renzi, ha insistito per una soluzione che escludesse – per il momento – il ricorso alle armi. Ma anche su questo si vedrà – e bisognerà seguire con attenzione il dibattito e le posizioni eventualmente in evoluzione del governo – perché lo stesso Gentiloni ha affermato la diplomazia e la politica questa volta “devono dimostrare di essere più rapidi dei terroristi”. D’altra parte, nella partita libica, l’Italia, fra le potenze esterne, è quella destinata a perderci o a guadagnarci di più. Libia, petrolio, Eni per l’Italia. E sull’altro piano, la Francia, con i suoi impianti Total e la sua diretta e primaria responsabilità nella guerra scatenata per abbattere il regime di Gheddafi, cogliendo l’occasione delle rivolte popolari della primavera del 2011. Di cui più nessuno parla, mentre il governo Hollande continua a dar prova di forza muscolare anche in Libia.
Su tutto tuttavia, bisogna sottolinearlo, perché è un punto di primaria importanza,pesa l’incertezza del caos geopolitico generale, che domina l’intera regione mediorientale e mediterranea. Che ha come punto focale, ancora lontanissimo dal trovare una soluzione, la Siria e le conseguenze su tutti i terreni che la guerra in Siria e le sue enormi tensioni geopolitiche producono. E’ quella guerra in realtà che domina la partita e sta dietro al come si guarda alla Libia dalle parti più diverse. O comunque le due partite stanno strettamente insieme.
Il comunicato finale porta la firma di Paesi come Egitto, Emirati, Qatar, Arabia Saudita, Turchia, che dalla parte di Tripoli o da quella di Tobruk sostengono attivamente le fazioni armate. E mentre a Rabat va in scena la firma dell’accordo, il ministro della Difesa saudita Mohammed Bin Salman annuncia l’ennesima coalizione di Paesi per lo più musulmani che, viene dichiarato come già nelle altre occasioni, ha l’obiettivo di combattere le organizzazioni terroristiche. Della coalizione fanno parte 34 paesi asiatici, mediorientali e africani, ma nella quale, vedi caso, non è prevista la presenza dell’ Iran e delI’Iraq, cioè la parte sciita della partita, che è anche l’obiettivo non secondario del furore ideologico dell’Is.
Insomma il risiko della confusa e sanguinosa transizione che domina la scena globale continua. E’ difficile prescinderne per capire come stanno le cose.