La piazza e la Leopolda
Dalla Leopolda sono piovute espressioni di scherno e sarcasmi di ogni tipo nei confronti degli oppositori interni al partito del premier nonché atteggiamenti di sufficienza più o meno sprezzante verso chi è sceso in piazza il 25 Ottobre. La Leopolda di quest’anno è stata la narrazione della conquista del potere, l’apoteosi del capo. L’“io” che fa finta di diventare noi – basta che tutti siano conformi al capo e voila si può – e l’io collettivo spazza via tutto ciò che manifesta un pensiero non conforme, perché, in quanto tale, catalogabile in automatico tra le residualità della storia.
I media sono scattati subito e da subito il mantra mediatico è diventato il contrasto tra la piazza e la Leopolda, tra l’ostinazione della Cgil a procedere alla messa in scena “novecentesca” del dissidio politico e la spiazzante contemporaneità della renziana location politica, un luogo che conta davvero e cambia le cose. La prima – la piazza – residuale e sterile, la seconda – il garage location – vitale e performativa; l’una lontana dal sentire comune, piena di slogan inefficaci e nostalgie d’antan, l’altra che parla “agli italiani”, dice “cose”, inventa soluzioni, risolve i problemi. Ma al di là del linguaggio trendy, del casual fashion dell’abbigliamento di chi conta, del giovanilismo di maniera della squadra vincente, alla Leopolda si studiano strategie di potere, si stringono alleanze, si misurano i rapporti di forza. Basti guardare il gotha che quest’anno vi ha partecipato, basti informarsi su chi abbia finanziato la tre giorni leopoldina. Il nuovismo della narrazione, l’antichismo della prassi, insomma.
Quello di Renzi alla manifestazione del 25 Ottobre è un approccio velenoso come pochi, soprattutto perché avviene dopo che quasi tutti gli elementi della strutturazione sociale e politica e degli apparati simbolici che avevano disegnato, codificato e rappresentato i rapporti tra le parti sociali, la semantica costituzionale e istituzionale, i principi ispiratori dell’ordinamento democratico del nostro Paese sono andati in liquefazione o restano là come monconi senza vita, che non parlano più alla stragrande maggioranza della società. O parlano confusamente, aridamente, senza che sia chiaro che cosa significhino davvero, perché non c’è più nessun rapporto tra quelle parole e la vita delle persone, tra quei principi e la tutela dei diritti che dovrebbero derivarne. Democrazia, per esempio: che cosa significa, per la gente affranta dalla crisi, con un Renzi che occupa le istituzioni come se si trattasse di luoghi ingombranti da sterilizzare, perché ostacolano la risoluzione dei problemi “degli italiani”, a cui solo lui pensa? Nessuno sembra avere niente da ridire, a cominciare dallo stesso Parlamento, ridotto ormai a ufficio di convalida delle decisioni del premier.
La messa alla berlina della piazza, dopo le umiliazioni inflitte al Parlamento dal premier, appare oggi il nuovo piano inclinato sui cui hanno cominciato a esercitarsi i mandarini di Renzi, in modi diversi, benevoli o sprezzanti a seconda dell’occasione e dell’ispirazione personale di chi esterna, con l’idea per alcuni di riconquistare almeno in parte le opposizioni e, per altri, di liquidarle del tutto il prima possibile. E per tutti con la preoccupazione forse di far passare intanto la nottata, fino a che la dirigenza sindacale si stanchi dell’azzardo della piazza – contro quello che secondo il senso comune dovrebbe essere il “suo” governo – e tutto rientri nei ranghi, magari con la concessione di qualche cambiamento di virgola ai testi della contesa. Il ministro Poletti si è reso disponibile in questa direzione, a patto ovviamente che nulla di sostanziale cambi. Ma l’obiettivo strategico – squisitamente politico – rimane per il premier quello di umiliare la piazza, di sminuirla nella percezione comune, facendo interiorizzare l’idea della sua inutilità, del suo essere in contrasto con il grande sforzo “leopoldino”, di Renzi e della sua squadra, di mettere al primo posto i famosi interessi degli “italiani”. Come se gli italiani fossero un tutt’uno fusionale, senza contraddizioni e contrasti al loro interno. L’ide del partito della nazione serve a rafforzare l’idea della società indifferenziata, rispetto alla quale un capo benevolo, che pensa soltanto agli italiani privati di ogni connotazione sociale, può trovare la soluzione giusta. O il verso, che è la stessa cosa. Cioè niente.
Ma la manifestazione del 25 ottobre non è affatto riducibile né riconducibile allo stereotipo politico di una messa in scena novecentesca. O all’unica variante di un’operazione di auto preservazione del gruppo dirigente della Cgil. Che pure c’è ma che se rimane soltanto tale non potrà non tramutarsi in un boomerang. La manifestazione ha visto una grandissima partecipazione di popolo che aveva da esprimere punti di vista non addomesticati, e soprattutto era piena dei problemi sociali e dei soggetti della contemporaneità, a cominciare dai giovani, molte le ragazze e ragazzi, che hanno messo in scena con il loro esserci, le loro parole, i loro cartelli, la loro sorprendete ironia, il gigantesco problema del lavoro che non c’è, della sua precarizzazione quando c’è e di quel venir meno di ogni diritto per il lavoro che il premier neoliberista ha in mente col suo Jobs act. Nei vent’anni che abbiamo alle spalle, la Cgil sicuramente non ha fatto, come d’altra parte tutta la sinistra non ha fatto, di questa espansione del lavoro/non lavoro la base concettuale e pratica di una nuova civiltà del lavoro, di una nuova idea della società e del futuro delle nuove generazioni. E ha lasciato che si scollegassero sempre più i mille segmenti sociali del mondo del lavoro che le politiche si austerità separavano e contrapponevano. Tutto questo per un tempo lunghissimo, che è diventato sempre più il tempo della crisi economico-sociale che viviamo e dell’abbandono al loro destino delle ultime generazioni di giovani. Cioè il terribile tempo della rassegnazione e dell’introiezione psicologica che non c’è alternativa, che quello che avviene avviene perché sta nelle cose, un dato di natura, contro cui nulla si può davvero fare. Che tanti giovani abbiano voluto scendere in piazza il 25 Ottobre è un segnale straordinario di partecipazione e consapevolezza.
La manifestazione del 25 ha introdotto per tutto questo un punto di rottura, ha permesso di guardare alle cose da un altro punto di vista, di misurare le potenzialità dell’agire insieme, del ritrovare una politica sottratta all’appalto a una rappresentanza che non rappresenta più nessuno e che in ragione di questa non rappresentatività può essere svuotata di qualsiasi funzione democratica. Il punto di rottura è di grande evidenza politica, soprattutto per un personaggio come Renzi, che pensa alla politica innanzitutto come a un gioco di potere che deve potersi svolgere nella semplificazione estrema delle regole, nel vuoto pneumatico dei corpi intermedi, nella riduzione della politica a conquista del consenso per ipnosi mediatica, furbizie elettoralistiche, azioni di depistaggio. Non ha nessuna voglia, nessuna competenza culturale, nessun interesse a esercitarsi nella ricerca di un accordo con la Cgil.
Non a caso dalla Leopolda il messaggi del premier, tra applausi a gogo, hanno avuto il segno inequivocabile della svalorizzazione delle rivendicazioni sul lavoro che nel corso della manifestazione si sono rese evidenti, con le critiche al Jobs act, continuamente echeggianti tra chi ha partecipato al corteo. Renzi ha ripetuto il rosario delle sue certezze neo liberiste, che appaiono come scolpite sul marmo. Ha detto e ripetuto che il mondo va ormai a grandissima velocità e bisogna stargli dietro; che il posto fisso non c’è più e amen, bisogna farsene una ragione, che la “monogamia” aziendale – cioè la certezza del posto di lavoro – è in crisi e di fronte a questa ormai ineluttabile stato delle cose la “sinistra” – quella che lui chiama ancora così mentre la svuota di qualsiasi contenuto – non può fare altro che offrire qualche tutela a chi perde il lavoro e non lo trova più. Insomma, alla fine di tutto, c’è questo, il nocciolo duro neoliberista del suo governo: il nuovo rapporto tra lo Stato e i cittadini, donne e uomini, che non è più quello fondato sul dettato costituzionale degli obblighi e dei doveri dello Stato ma diventa quello delle “opportunità” residuali. Quando è possibile, se c’è qualche spicciolo, vedremo. Bisogna farsene una ragione. Le cose vanno come vanno. Hanno un altro verso.
La piazza è da sempre un luogo pubblico della politica, spesso di eccellenza per i cambiamenti che contano, e ha continuato a essere tale nel nuovo secolo, già pieno di piazze, di manifestazioni, di Occupy luoghi del potere, di iniziative di ogni tipo, dove vanno in scena in scena contrasti che continuano a essere talvolta mediabili tal altra così aspri, tra parti e interessi diversi, al punto da sembrare irrisolvibili. La piazza opera rotture, mette in scena conflitti, dice spesso, con chiarezza, che gli interessi in campo sono diversi e contrapposti e non dovrebbe essere la stessa cosa se a mediare è una politica di sinistra oppure una di destra. Ma ormai da noi sembrano la stessa cosa perché Renzi ha completato il percorso dell’omologazione completa del suo partito alla religione neo-liberista.
La piazza del 25 ottobre è stata una piazza di rottura, una piazza che ha criticato a tutto campo il governo, perché fatta da donne e uomini che non hanno subito passivamente la narrazione ipnotizzante del premier. Ma, per come è nata e per chi ha avuto il ruolo determinante nel pensarla e nell’organizzarla, è stata anche una piazza che ha messo in evidenza i problemi della fase di transizione che viviamo, tutte le sue contraddizioni e le sue sconnessioni, piena di ciò che in passato ha garantito grandi processi di cambiamento positivo nel mondo del lavoro e di democratizzazione della vita pubblica italiana, e ciò che oggi incarna i problemi della contemporaneità – il mondo del lavoro precario, i ragazzi e le ragazze che studiano ma senza nessuna certezza per il loro futuro – e non sa ancora, quel mondo, come districarsi, su che cosa fare forza per rimettere seriamente in discussione il corso delle cose, aprire nuove prospettive. Non c’è una forza adeguata, come è evidente, sul piano politico e della rappresentanza istituzionale, soprattutto. Ma si apre una fase nuova, con cui non solo Renzi dovrà fare i conti ma soprattutto chi pensa che si debba ancora scommettere sulla sinistra e lavorare in questa direzione. Non c’è nulla di automatico oggi, bisogna non avere illusioni, ma le cose continuano ad avvenire, e la storia non finisce con Matteo Renzi. La piazza del 25 Ottobre per il momento ha messo in chiaro soprattutto questo. Ed è già molto, da molti punti di vista.
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Pierangelo
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Pierangelo