L’algoritmo del caos
La parola guerra risuona ormai con sempre maggiore frequenza in molte sedi, occupando, nel dominante sistema politico-mediatico, uno spazio fino a qualche anno fa impensabile. Crudamente, senza perifrasi, senza attenuazioni.
Di guerra hanno parlato con insistenza in questi ultimi tempi – l’uno per scongiurarla, l’altro per promuoverla – il capo della Chiesa di Roma e il capo dell’Eliseo di Parigi. Da una parte, papa Bergoglio, che esprime, nella tensione pastorale che il ruolo gli conferisce, il disegno politico di riportare all’attenzione pubblica l’urgenza della pace, perché la Chiesa di Bergoglio ha chiara e teme la portata del grande caos geopolitico che incombe. Sa bene che esso pericolosamente assedia il destino del mondo e minaccia da vicino la stessa cristianità. E sa che in tutto questo è inscritta la permanenza in qualche forma della guerra.
E, dall’altra parte, il presidente Hollande, che audacemente ha messo in atto la mossa non solo del richiamo alla guerra ma della diretta scelta di guerra contro il Siraq di al Baghdadi. Per rispondere così, in chiave di orgoglio nazional-repubblicano, agli agguati terroristici dello Stato islamico ma anche per ristabilire a proprio vantaggio le regole del gioco, in Europa, e gli interessi francesi, oltre l’Europa. La guerra voluta da Parigi contro il regime di Gheddafi, con il presidente Sarkozy nel 2011, per questo fu pensata e messa in pratica e ne scontiamo ancora le conseguenze. Ancora oggi i destini della Libia ne portano il segno crudele, in termini di guerra civile e di crescente penetrazione dello Stato islamico nella strategica regione della Sirte. E non è affatto detto, per come dimostrano tuttora le cose, che ci sarà mai un governo di unità nazionale libico a ristabilire i rapporti con l’Occidente, a chieder una presenza italiana di state building. L’accordo raggiunto all’inizio dell’anno a Rabat, voluto con lungo lavorio dalle Nazioni unite per far siglare il patto di unità fra le due fazioni – quella del governo libico di Tripoli e quella dell’altro governo libico di Tobruk – è stato solo una simulazione senza seguito. Le fazioni in Libia sono ormai infinite. A la guerre comme à la guerre, allora: questa rischia di essere ancora per chissà quanto la bussola che guida i comportamenti nei territori devastati dalla guerra e nei Paesi che ne hanno avuto la responsabilità, spesso non piccola, e provocato il disastro, non sanno neanche come contribuire a risolverlo.
Siamo a questo punto, dopo le lunghe, illusorie e depistanti stagioni del peace keeping, del peace enforcing, dello state building. Ovvero dell’esportazione della democrazia, costi quel che costi, con tutte le conseguenze che non poco hanno contribuito alla deflagrazione di antichi assetti statuali. Per lo più dietro la mistificazione della favola bella che il radioso futuro della democrazia globale era avviato.
Con l’inizio del 2016 sono trascorsi 25 anni dalla prima guerra contro l’Iraq, vero spartiacque storico, che determinò l’avvio della fase che viviamo: quella del crescente disordine geopolitico subentrato alla fine del patto post bellico di Yalta, alle durezze e deterrenze di quell’ordine, che per tutto il tempo che era durato aveva tuttavia, per questa sua natura di deterrenza, in qualche modo congelato i rapporti di forza nel mondo, assicurando una instabile ma indiscussa tenuta degli accordi seguiti alla carneficina della seconda guerra mondiale. La conferenza di Yalta in Crimea, nel febbraio del 1945, era servita a Stalin, Roosevelt e Churchill, dietro lo schermo delle Nazioni Unite, a concordare la spartizione dell’Europa e del mondo fra Occidente americano e Russia sovietica. “Una pace fra i potenti” (Limes, rivista italiana di Geopolitica), che fu pagata con l’oppressione all’Est e i conflitti alle periferie del pianeta, dalla Corea al Vietnam, dal Medio Oriente al Congo. E con l’accumulo di nuove contraddizioni, che stiamo conoscendo in questa nostra contemporaneità e di cui le tensioni sul limes/confine/fronte orientale – Ucraina – dell’Europa sono una delle tante manifestazioni, così come è tale la fine degli assetti post coloniali, che sembra dover travolgere tutto, senza trovare soluzione.
Crollata l’Unione Sovietica, George Bush padre immaginò che fosse giunta l’alba di un “nuovo ordine mondiale”, benevolmente egemonizzato dagli Stati Uniti d’America. Washington consensus, così venne chiamata l’illusoria performance di quel momento. Ma con George Bush figlio, il corso del mondo prese invece un’altra piega e il nuovo ordine mondiale assunse il profilo bellicoso della guerra neocon da esportare, in nome della democrazia e contro il terrorismo. Cominciò la lunga fase interventista a guida americana, con l’occasione offerta dall’agguato di al Qaeda alle Twin Towers, nel settembre del 2001. Anche la grande crisi finanziaria del 2007, che travolse la finanza privata americana, fece la sua parte nell’implementare il disordine del mondo e le nuove strategie di dominio occidentali . Una deflagrazione a rapide tappe successive, dall’Afghanistan lungo la linea mediorientale e mediterranea, che ha alimentato le convulsioni già presenti in vaste zone dell’Asia e dell’Africa, nello Yemen e nel Sahel ex francese, nel combinato disposto tra disastri e sfaldamenti statuali – che l’interventismo militare occidentale ha provocato – contrapposte strategie di potere degli attori regionali – Arabia Saudita e petromonarchie del Golfo da una parte, ma anche Turchia dalla stessa parte, e Iran sciita dall’altra – e crescente diffusione di una radicalizzazione estremistica in chiave ideologico-politica dell’Islam sunnita salafita, alimentata da complicità di ogni tipo, oltre che da finanziamenti di ogni genere e da ambigue alleanze occidentali con i potentati locali, che proteggono i gruppi jihadisti o fanno solo finta di contrastarli. Perché l’imperativo geopolitico, secondo l’ antica concezione del potere che della geopolitica ha fatto per lungo tempo un suo strumento privilegiato, è di allargare la propria zona d’influenza o almeno evitare di dover subire un altrui allargamento, soprattutto se nessuna potenza mondiale al momento è in grado di mettere in atto l’idea risolutrice del disordine. Il caso della Turchia, che offre vie di passaggio ad armi petrolio e altro dello Stato islamico, per assicurarsi anche in questo modo profondità strategica in Asia e per debellare l’odiata e influente presenza curda, è quanto di più illuminante ci possa essere per capire radici e diramazioni del disastro che affligge dall’interno il mondo islamico e che condiziona le strategie occidentali . La Turchia Paese Nato. Putin che contesta l’allargamento a est della Nato. E l’Europa divisa al suo interno, perché l’unica legge che la tiene insieme è quella del mercato economico-finanziario e dei vincoli senza senso dei trattati. Non c’è altro oltre questo e l’idea dell’Europa rischia ormai di essere soltanto un’illusione dell’anima.
La guerra per procura in Siria fa parte dello stesso capitolo e ha aperto la strada a un tale esodo di popolazione in fuga – a una tale tragica geopolitica della vulnerabilità umana – che potrà avere conseguenze oggi inestimabili per il futuro della stessa Europa. Che già si vedono, che già ne mutano in negativo il profilo di benevolente ed esemplare civiltà con cui l’Europa e l’Unione europea si sono rappresentate nel loro rapporto col mondo. E ne minano – nella forsennata domanda dal basso di sicurezza, che i demagoghi della politica raccolgono come manna – le basi democratiche e la qualità di stato di diritto degli ordinamenti statali europei. All’improvviso – ma non tanto se si rileggono molti episodi degli ultimi anni – sono riapparse le frontiere sbarrate, il filo spinato è di nuovo nel cuore dell’Europa, il tunnel della Manica è inaccessibile, anche nei giorni delle feste natalizie, quando si evocano stereotipi di pace e amore senza tempo e senza contesto, e la civilissima Danimarca prevede di sequestrare i pochi beni in oro e argento, che i profughi siriani riescono a portar via nella fuga, come contropartita delle spese che il Paese sostiene per ospitarli.
Dal Nordafrica al Golfo e all’Asia centrale: neanche un conflitto appare avviato sulla strada di una soluzione, anzi le tensioni sembrano moltiplicarsi, come i continui attentati terroristici in molte zone confermano. E i dati dell’Indice globale del terrorismo, vale la pena di sottolinearlo, confermano puntualmente che la stragrande maggioranza dei luoghi colpiti e delle vittime cadute appartengono alla parte musulmana: vittime di ogni tipo, donne e creature ma anche uomini affaccendati in attività della vita quotidiana, persone inermi uccise, esplose, fatte a pezzi, massacrate. Tutte musulmane, per lo più della parte sciita, nello scontro di potere tra potentati diversi che, come nell’Europa del XVI e XVII secolo, si traveste da guerra di religione. Contro gli infedeli ma soprattutto contro gli apostati.
Mantenere alta la tensione anziché cercare soluzioni effettive sembra la politica dominante di tutti gli attori sia globali sia locali, mentre il Siraq di Al-Bagdhadi proprio dal suo essere oggi il centro di irradiamento di tutte le tensioni trae la maggiore forza della propria strategia e la malefica legittimazione alla propria esistenza, con risonanze che arrivano direttamente fin nel cuore dell’Europa. Foreign Fighters, di seconda e terza generazione ma anche di radici europee autoctone.
Siamo dunque al punto di dover fare di nuovo i conti e per chissà quanto tempo con l’idea e la realtà della guerra e delle sue crudeltà? Così sembra, soprattutto quando i fatti di cronaca fanno della guerra – o di qualcosa che ad essa assomigli – materia viva della nostra vita occidentale, come è stato con gli agguati terroristici di Parigi del 13 novembre. Sembra manifestarsi, in queste occasioni, una realtà dell’Europa contemporanea di nuovo alle prese con vicende di drammatica quotidianità, che sembravano morte e sepolte e che invece ritornano puntuali, col loro carico di angosce, paure, affannose richieste di sicurezza da parte dell’opinione pubblica. E di demagogiche assicurazioni da parte dei politici di turno. Madame Le Pen, Matteo Salvini, per citarne alcuni. Così, non per caso, la sera stessa del 13 Novembre, dopo gli attacchi nel centro di Parigi, il presidente francese ha dichiarato davanti al mondo e ha fatto sapere in diretta alla cancelliera tedesca che “il patto di sicurezza ha precedenza rispetto al patto di stabilità” e dunque la vita dei cittadini francesi val più dei vincoli di bilancio. Un colpo all’ortodossia neoliberista della Germania e un modo per riguadagnare il consenso popolare in precipitoso declino, di fronte all’ascesa del Fronte nazionale. E per rilanciare in contemporanea gli interessi della Francia sul piano del business globale. Ma l’esercizio di fare i conti con le proprie responsabilità pregresse continua a essere un atto che la politica non è in grado di compiere perché non vuole o non sa. Così una decisiva porzione delle ragioni di questa guerra, che si annidano nel cuore dell’Europa, diventa inafferrabile e si perde nel gioco perverso dei giochi politici, dei ricatti e delle manipolazioni di cui sempre si sono alimentati i disordini, le crisi, i conflitti e le guerre.
Rimane di tutto questo la domanda fondamentale: se davvero è guerra, che guerra è? Davvero si va verso una guerra globale? Per stare ai fatti e alla logica interna dei fatti, siamo sicuramente in un clima di guerra fortemente alimentato in questo senso dall’impatto mediatico della comunicazione e di fronte al moltiplicarsi di episodi che del conflitto l’uno contro l’altro armato hanno alcune caratteristiche inquietanti, oltre che crudeli. Ma è un configurarsi della guerra in forme, procedure, dispiegamenti, strategie molto differenti rispetto al passato. Guerra diffusa come latenza della guerra, guerra diffusa in espansione a macchia di leopardo, crudelissima ma prevalentemente a bassa intensità. Quel che dovrebbe preoccuparci e alimentare una politica di seria opposizione è il fatto che tutto questo avviene in un mercato delle armi in continua espansione, in un commercio delle armi sempre più sfuggente e sottratto alle regole e quindi pericolosissimo, e in una corsa alle tecnologie di guerra che non conosce sosta. Un pianeta carico di armi sofisticatissime che prendono vie incontrollabili, mentre pericolosissime armi di distruzione di massa vengono abbandonate non si sa dove da miliziani e militari in fuga. Frantumaglia di guerra, ideologia di guerra, misure di guerra. Siamo a questo punto. Ma non ci sarà nessuna dichiarazione di guerra, almeno, per come stanno oggi le cose. Ci sarà una proliferazione di innumerevoli zone di combattimento, con i governi occidentali che tenderanno sempre più a sottrarsi al controllo dei Parlamenti, e a fare della risposta bellica un questione di sicurezza interna. La legge del lutto, come l’ha definita Judith Butler, commentando criticamente lo stato d‘eccezione dichiarato in Francia del presidente Hollande la sera stessa di quel fatale 13 novembre. Micro-conflitti frammentati e alleanze casuali di breve respiro, prive di qualsiasi visione strategica generale. O “terza guerra mondiale a pezzi”, come l’ha definita papa Bergoglio, che è cresciuta su se stessa e sta trascinando tutto il mondo in un piano inclinato estremamente pericoloso.
Gli anni della libertà, della pace, del benessere pensato in progress, insomma la magica bolla della modernità novecentesca, che ci era stata somministrata per qualche decennio come magnificenza traguardata per sempre, tutto questo non c’è più. Farci i conti e immaginare, soprattutto mettere in atto un altro punto di vista, capendo se ci siano e quali siano le opportunità del presente, per pensare oggi il che fare, è la sfida che la politica ha di fronte. La vera sfida: se qualcuno naturalmente avrà ancora voglia di pensare alla politica. Il resto è quello a cui ci assegna l’algoritmo del caos.
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francesco
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Elettra Deiana