L’Europa, il partito della nazione, la sinistra
La drammatica escalation militare in Medio Oriente, la guerra a bassa intensità che ogni giorno miete vittime in Ucraina, il Mediterraneo e le coste italiane trasformate in un enorme cimitero e, contestualmente, la sostanziale afasìa di un’Europa distratta ed afona, che perde posizioni nei nuovi assetti geopolitici del mondo, tanto attenta ai vincoli di bilancio quanto incapace di giocare un ruolo politico autonomo di fronte ai drammi che lambiscono i suoi confini, danno il senso di una insufficienza e di una urgenza, uno spazio entro cui provare ad immaginare un processo di ricostruzione di una politica di trasformazione.
Le nostre difficoltà politiche o le collochiamo a questa altezza, recuperando il senso di una prospettiva europea di cambiamento, ingaggiando sulla dimensione continentale un corpo a corpo costituente con le politiche dell’austerità e della guerra, oppure rischiamo di oscillare tra banali aspirazioni personalistiche e improbabili scorciatoie organizzativistiche.
Il progetto collettivo e la comunità politica di SEL stanno vivendo giornate complicate, certamente a causa di un’operazione di trasformismo che ha colpito, in primo luogo, la credibilità della nostra ipotesi politica (rendendo, ad esempio, più deboli le ragioni della sinistra nelle esperienze unitarie di governo locale), ma soprattutto perché, dopo la fine dell’esperienza di Italia Bene Comune, la riproposizione delle larghe intese su scala italiana e continentale, la natura postdemocratica della politica renziana, la crescita delle pulsioni populistiche e nazionaliste in tutta Europa e l’autentico esodo di massa dalla democrazia rappresentativa (di cui il voto del 25 maggio parla), diventa indispensabile ripensare ruolo, funzione e prospettiva politica di SEL nel quadro della ricostruzione di una soggettività che si ponga il problema dell’efficacia dell’agire politico e sociale, non limitandosi ad un approccio meramente adattativo ed emendativo dell’esistente.
Come molti tra noi, anche io sono rimasto colpito dal cinismo, dalle modalità e dalle argomentazioni addotte dai fuoriusciti per giustificare la loro scelta, ma onestamente non credo che il nostro problema principale sia un’operazione di Palazzo che vive esclusivamente nella sfera separata e privilegiata della rappresentanza istituzionale e che non c’entra nulla né con lo sbandierato decreto sugli 80 euro, né con le esigenze vere di un Paese sfibrato dalla crisi, dove, come indica il Rap¬porto sui diritti glo¬bali, in questi anni si è condotta una gigantesca lotta di classe al contrario che ha consentito al 10% della popolazione più ricca di possedere quasi la metà della ricchezza nazionale, mentre il 10% delle famiglie più povere percepisce solo il 2.4% dei redditi. Una grande concentrazione di ricchezza indirizzata verso l’alto della piramide sociale, mentre in basso dilaga la povertà, la deprivazione anche alimentare, la precarietà del lavoro che ormai sfuma verso la zona grigia del lavoro povero e dell’inoccupazione. La narrazione ottimistica renziana, già in queste ore, si misura con un’ulteriore calo della produzione industriale, con la dinamica dei consumi sostanzialmente ferma (nonostante gli 80 euro) e con la cosiddetta “jobless recovery”, vale a dire con la drammatica separazione tra previsioni di timidi tassi di crescita ed occupazione al palo.
Se questo è il quadro sociale del Paese, in gran parte prodotto dalle politiche di questi ultimi anni, può bastare l’innovazione di superficie e l’indubbia capacità di movimento del Presidente del Consiglio (la continuità nella discontinuità ) a rendere politicamente plausibile la fuoriuscita di un pezzo di gruppo parlamentare? O siamo semplicemente alla resa, per di più individualistica, di chi pensa che “non ci siano più alternative” al renzismo? In realtà, io credo che questa vicenda metta in rilievo anche uno smottamento di cultura politica: l’assunzione della governabilità come valore assoluto e l’idea che solo la dimensione del governo possa rappresentare la fonte di legittimazione della politica. Il governo, senza aggettivazione di classe o di tendenza politica, diventa lo spazio per agire lo stesso superamento della divisione tra destra e sinistra. Tutto il resto, opposizione, conflitto sociale, dissenso perde cittadinanza e diventa sinonimo di perdita di tempo, inefficacia, marginalità, testimonianza.
Ma è proprio questa impostazione che nega le ragioni di fondo da cui nasce Sel: la costruzione di una sinistra con una cultura di governo, in grado di produrre scelte socialmente e ambientalmente significative e di ridare senso democratico ad una crisi drammatica di rappresentanza e di funzione della politica. Una sinistra con cultura di governo, non certo una micro frazione (questa si, testimoniale) nel Partito della Nazione di Renzi (il partito del Governo, il centro dell’intero sistema politico) che oggi fa del populismo contro tutti i corpi intermedi strutturati, di un’idea postdemocratica di regole e di quadro istituzionale, del rilancio dello sviluppismo (dal Piano Casa alle trivellazioni nell’Adriatico) e dell’ulteriore precarizzazione dei rapporti di lavoro, la cifra di una modalità di governance nel tempo della crisi che prova a superare la fase più dura delle politiche di austerità, riattivando timidamente la leva redistributiva (questo il significato degli 80 euro in Italia e dei minimi salariali in Germania), ma in un quadro di regole rigidamente fisse (Fiscal Compact, Patto di Stabilità, Sixt Pact), ancorché formalmente contestate, che finisce per vanificare anche quei minimi tentativi redistributivi.
Dopo il successo parziale, ma significativo della lista Tsipras ( e meno male che al Congresso di Riccione abbiamo scelto quel campo, anziché quello subalterno delle larghe intese europee!), SEL deve provare a ripensare a fondo la sua funzione, contribuendo ad alimentare una processualità entro cui far vivere il confronto con le forze che hanno animato questa iniziativa, rifuggendo da tentazioni minoritarie e privilegiando soprattutto la relazione con le esperienze più dinamiche (come quelle che si sono espresse nell’assemblea del 29 giugno a Roma promossa da ACT). Si tratta di rimettere in campo una nostra iniziativa politica che faccia leva su piattaforme e campagne, capaci di parlare alla condizione sociale del Paese, provando a caratterizzare maggiormente anche il nostro profilo di opposizione parlamentare al governo Renzi, interagendo con il malessere interno allo stesso Partito Democratico e con la crescente disillusione che attraversa il movimento grillino. Con questa interlocuzione larga che allude alla costruzione di una coalizione politica e sociale occorre rilanciare anche il tema dell’innovazione culturale e teorica della sinistra che sappia guardare all’Europa come principale teatro di azione.
L’Europa, quindi, come terreno di battaglia politica, dove incalzare e sfidare l’iniziativa di Matteo Renzi, a partire dal semestre di Presidenza italiana e dagli impegni pubblici assunti dal premier nella direzione di una modificazione sostanziale dei vincoli di austerità: il referendum contro il fiscal compact, una campagna europea per il reddito di cittadinanza e una vertenza contro il patto di stabilità da praticare nei nessi amministrativi di prossimità possono essere le gambe sociali su cui far viaggiare soggetti e reti di sinistra in grado di praticare un’iniziativa diffusa e capillare.
Infine, la crisi ha spezzato legami di solidarietà. Specie nelle grandi aree metropolitane, interi settori sociali sono sprofondati nella paura e nella precarietà, determinando tra le altre cose una estrema liquidità negli orientamenti politici e culturali. La politica, se non vuole limitarsi al galleggiamento e alla mera gestione dell’esistente, non può farcela senza porsi l’obiettivo di ricostruire legami sociali, forme di solidarietà, idee di comunità. Questo vale anche per SEL. E’ necessario ripensare le nostre forme, dobbiamo mutare pelle, provare ad essere luogo e spazio, capace di agire efficacemente nelle pieghe della crisi, promuovendo direttamente conflitto, costruendo pratiche mutualistiche, favorendo dinamiche di autorganizzazione dei soggetti, incrociando ed organizzando i bisogni popolari.
Non abbiamo bisogno di piccole liturgie autocentrate, ma di un’operazione ariosa di tessitura di relazioni e di pratiche, in grado di ridare linfa all’obiettivo della ricostruzione della sinistra e dell’alternativa di società.
Giancarlo Torricelli, coordinatore SEL Lazio