Libia, l’ennesimo fallimento della dottrina dell’ingerenza umanitaria
Equiparare la missione UNIFIL in Libano ad un’eventuale intervento militare in Libia come ha fatto in un’intervista al Messaggero Roberta Pinotti confonde i livelli. In Libano UNIFIL II è una missione di peacekeeping e interposizione, su una linea di confine ben definita, che separa Israele dalle forze di Hezbollah. Una missione con regole di ingaggio chiare, non di coinvolgimento “attivo”; infatti ricordo la discussione serrata rispetto alla richiesta pressante di Israele di attribuire a UNIFIL un mandato “duro” ossia andare a cercare e disarmare Hezbollah. Così non fu e proprio questa terzietà è la garanzia del suo successo, seppur relativo, visto che alla missione militare non seguì mai la fase “2” ossia quella della soluzione politica.
Allora prima di inoltrarci in possibili soluzioni, ipotesi di lavoro, ruolo delle Nazioni Unite (anche nel caso Iraq, vale la pena di ricordare che la legittimazione ONU venne ben dopo l’intervento militare al di fuori del quadro multilaterale) è bene provare a ricostruire le cause della crisi libica e fare chiarezza . Ora ci troviamo di fonte all’ennesimo fallimento della teoria e dottrina dell’ingerenza umanitaria con la Libia in mano a bande armate, spinte secessionistiche, controllo di risorse petrolifere, golpe e controgolpe, una guerra civile per procura ancora una volta, tra Qatar che foraggia le milizie islamiche da una parte e Arabia Saudita e Emirati che sostengono il generale Haftar, che si è proclamato difensore della laicitià e dello stato. All’interno di questo conflitto che si è alimentato anche grazie all’assenza di un assetto “statuale” o corpi intermedi, anche conseguente alla defenestrazione di tutti i quadri di governo e ammiistrativi dell’era Gheddafi, si è inserito il Daesh. Sia chiaro qua non si tratta di rimpiangere un criminale, ma ammettere che non si può ricostruire in vitro e in maniera eterodiretta un paese attraverso un “tabula rasa”, questo forse è in caso di farlo.
Quelli che oggi combattono per il Califfato in Libia sono ex combattenti libici che andarono in Siria e Iraq e poi rientrati addestrati e imbevuti di follia. Per rendere più complesse le cose, le centinaia di intermi, profughi,che cercano di arrivare in Europa, e sono alla mercé di chiunque in Libia .Quindi una situazione complessa, che va necessariamente “spacchettata” nelle tre questioni. La prima la ricostruzione di un assetto “statuale” in Libia, sostenendo l’iniziativa dell’inviato ONU Bernardino Leon, per un accordo tra le due parti in conflitto . Un accordo che però necessita di un approccio macroregionale, ossia un negoziato che metta alle strette Qatar, Arabia Saudita e altri player per interposta persona. La missione di “peacekeeping” ha senso se c’è un accordo di “peace” ma mantenere e su cui vigilare. Nulla a che vedere con la coalizione dei volenterosi alla quale paiono far riferimento i ministri Pinotti e Gentiloni. Peacekeeping quindi per contribuire alla ricostruzione di una cornice di “governo” del paese, magari lavorando ad un assetto federale, attraverso un processo di consultazione largo, aperto, e poltiche di equa redistribuzione delle royaties petrolifere. Su questa ipotesi credo si possa ragionare anche rispetto ad un eventuale partecipazione “indiretta” italiana. Non credo – visto il passato coloniale mai in realtà rielaborato a casa nostra – che sia possibile l’invio di “boots on the ground” italiani, ma una sorta di supporto tecnico logistico o con mezzi per una forza ONU di peacekeeping, quello forse si. Tutt’altra cosa è il contrasto anche militare del Daesh. In questo senso sono condivisibili le parole di Romano Prodi che si schiera nettamente contro l’eventualità che l’Italia si metta in un’avventura militare di quel tipo, Il Daesh è altra cosa rispetto al Libano, eppoi è fondamentale evitare confusione di ruoli e funzioni tra chi parteciperà ad operazioni di “peacekeeping” e chi in azioni di polizia internazionale contro il Daesh . Anche in questo caso andrà ben ponderata l’ipotesi di una missione ONU ibrida, basti guardar ai casi di Mali e Repubblica Democratica del Congo, dove a operazioni classiche di “peacekeeping” dei caschi blu sono stati affiancati assetti e truppe con vocazione più offensiva.
Terzo punto i migranti. Anche qua non fare confusione: I flussi di migranti dalla Libia non sono questione recente, e quindi ricollegabile all’ISIS o da mettere in connessione con un’eventuale operazione militare nel paese. Ora e subito invece di spostare l’enfasi sull’ipotesi di intervento militare, (contro chi? Accanto a chi? con quali obiettivi finali? Che quando si entra in un teatro di guerra è assai facile decidere di entrare, meno facile aver chiaro quando e come uscire) si metta subito in campo un’operazione internazionale di salvataggio in mare, non Triton, ma magari una Mare Nostrum II, internazionalizzata, con mandato di salvataggio non di securitizzazione delle frontiere. Giovedì il Ministro Gentiloni andrà alla Camera a riferire sulla Libia. Si vuole fare in fretta, ma spesso e volentieri la fretta è cattiva consigliera.
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massimo gaspari