Lo specchio libico
Da Sharm el-Sheikh, dove nei giorni scorsi è stato ospite della ‘Egypt Economic Development Conference”, il premier italiano Matteo Renzi ha dichiarato che oggi la priorità della comunità internazionale è di «intervenire in Libia prima che le milizie dell’Is occupino in modo sistematico non solo piccoli e sporadici luoghi ma una parte del Paese». È il terzo incontro che Renzi ha avuto con il generale al-Sisi, il presidente egiziano, dopo la missione lampo al Cairo, nell’agosto scorso, e la visita dello stesso al-Sisi a Roma a novembre. C’è stato di tutto in questi incontri, ovviamente. L’Egitto, che ha chiamato a raccolta a Sharm el-Sheikh ottanta paesi e un gran numero di imprenditori, invita a investire tra i 10 e i 12 miliardi di dollari nel Paese, nei settori come “energia, miniere, edilizia, agricoltura, turismo, industria, trasporti e tecnologia dell’informazione”, e altro ancora, tra cui il progetto di raddoppio del Canale di Suez.
C’è di tutto dal punto di vista degli affari – che sono sempre un capitolo importante nei rapporti tra Stati – ma per Renzi c’è anche l’ovvietà della scelta di appoggiare la strategia del generale al-Sisi nei confronti della Libia. Le elezioni che si sono svolte nel Paese nel giugno scorso, scarsamente partecipate e senza che nulla di serio fosse stato avviato per trovare un accordo minimamente sistemico, nella dominante polverizzazione statuale e politica della Libia, hanno prodotto la plastica conferma del fallimento di quello Stato. La coalizione laica che ha vinto, guidata dal al-Thimmi, è stata subito osteggiata dall’altra, l’islamica Alba libica, cacciata da Tripoli e costretta a insediare il proprio governo a Tobruk, vicino al confine con l’Egitto, mentre a Tripoli si è insediato il governo di Alba libica.
Al-Sisi appoggia il governo “laico” di Tobruk, e fa affidamento sul generale Khalifa Haftar, su cui al Thimmi fa affidamento per riorganizzare al meglio l’esercito della sua parte. Haftar è impegnato con le sue milizie in un durissimo contrasto militare dei fondamentalisti pro Is di Ansar al-Sharia e altresì impegnato a convincere l’Occidente della necessità di appoggiare il governo di Tobruk.
Il Cairo è dalla parte di Tobruk, per ovvi motivi di interessi e visione delle cose. L’intervento militare egiziano ha come scopo tattico quello di consolidare le eventuali conquiste delle milizie di Haftar ma anche di indebolire la coalizione islamica di Alba libica, togliendo spazio alle Fratellanze musulmane, che sono una formidabile componente sociale, politica, religiosa in Egitto e in Libia. E sappiamo come siano andate a questo proposito le cose in Egitto.
Le armi in Libia non sono state mai deposte dall’uccisione di Gheddafi, lo Stato non esiste più, le spaccature politiche e i violenti contrasti tra fazioni, tribù, bande di delinquenti comuni rendono quasi impossibile ipotizzare soluzioni sul breve periodo. Poi ci sono i focolai dei seguaci dello Stato islamico, un brand globale, che fa proselitismo dovunque trovi spazio. E lo spazio, come sappiamo, allo Stato islamico lo danno i processi di dissoluzione degli assetti mediorientali preesistenti (dall’Afghanistan all’Africa, nella visione imperiale di George W; Bush del Grande Medio Oiente che lui ha contribuito a far implodere), nonché lo stato di conflitto permanente e di latente o aperta guerra civile che questa dissoluzione comporta. Gli interessi incrociati di potenze grandi e piccole in questi disastri sono ormai noti, le responsabilità dirette o indirette altrettanto. Ma costituiscono lo scenario fuori scena, sempre rimosso, che rende impossibile una discussione seria sulla politica estera. In Italia in modo abnorme.
Pensare che una soluzione in Libia si possa trovare appoggiando l’una o l’altra parte, l’uno o l’altro governo, è quanto di più lontano ci sia dalla possibilità che vengano riavviate positivamente le cose. Lo stato di disordine endemico di intere zone del mondo fa parte delle dinamiche del mondo globalizzato e sono messe in conto, spesso indotte o alimentate, dalle strategie di grandi e piccole potenze. Ma il rischio di una nuova Somalia davanti alle nostre coste dovrebbe spingere l’Italia a fare di tutto perché il percorso da intraprendere sia quello di mettere d’accordo tutte le parti in causa, governi contrapposti e soprattutto le potenti tribù della Cirenaica e della Tripolitania. Non arrenderci, per visione del mondo e anche per interessi del nostro Paese, all’idea di soluzioni che non risolvono nulla perché riescono solo ad avvelenare all’infinito i pozzi.
Dicendolo con chiarezza, che non c’è altra via che la ricerca di accordi, non mettendoci in fila da gregari, dicendo dei no, spiegando anche con nettezza le ragioni del Paese Italia, e soprattutto offrendo e costruendo anche a Roma occasioni di incontro e dialogo tra le parti, tra esponenti della società e della cultura e quello che la Libia ancora esprime. Possiamo e dobbiamo farlo.
La Libia ci sta di fronte, a portata di mare, a soli 350 km dalle nostre coste. E’ una terra che parla molto di noi, ben oltre la vicinanza geografica. Parla di noi con la sua storia, che ci riguarda così da vicino; con l’evidenza, sempre più a rischio, dei nostri interessi energetici e imprenditoriali nella regione: gas, petrolio, commesse per le imprese, investimenti nel nostro sistema economico, che la Libia assicurava fino ieri e oggi non più; e con la scia di migranti e profughi che l’attraversano, arrivando da ogni luogo di conflitto e sfidando la sorte in mare per arrivare da noi. Una responsabilità umana e umanitaria ma anche politica, di fronte alla quale non possiamo fare neanche per un momento spallucce, come vorrebbe il ministro Alfano.
In più la Libia ci parla oggi della situazione esplosiva in cui è precipitata perché ne siamo corresponsabili diretti; direttamente ci chiama in causa per le rovinose ferite del dopo Gheddafi, per la disastrosa eredità che l’intervento militare occidentale del 2011 ha lasciato sul terreno e a cui il nostro Paese volle insanamente partecipare. Furono messe subito a disposizioni della coalizione le nostre basi, è bene ricordarlo; furono impiegati Tornado, F16 e F18 del nostro armamentario e fu organizzata da parte nostra una vasta operazione di bombardamenti sugli obiettivi sensibili di Tripoli e dintorni.
Tutti d’accordo: Parlamento, Governo, Presidenza della Repubblica. Follia nazionale. Bisognava intervenire per salvare i civili a rischio di essere massacrati da Gheddafi, soprattutto a Bengasi: questo il mantra umanitario a copertura del risiko geopolitico, oltre che a disposizione delle buone intenzioni umanitarie, che sono sempre a geometria variabile e a intermittenza temporale.
L’intervento internazionale in Libia, approvato dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite in seguito all’intensa campagna diplomatica di Nicholas Sarkozy e David Cameron, e dopo che i due Paesi capifila della willing coalition anti Gheddafi avevano già avviato le operazioni militari, avvenne sotto l’egida del cosiddetto Odyssey Dawn, poi denominato Unified Protector. Attivata con lo sbandierato obiettivo di proteggere i civili dalla repressione del dittatore libico, l’operazione militare assunse rapidamente i connotati di quello che era davvero: una guerra combattuta per rimuovere manu militari un regime scomodo. Il mantra della protezione dei civili ebbe insomma la stessa funzione del mantra bushiano sulle armi di distruzione di massa, agitato contro Saddam Hussein per mettere fine al suo regime.
Gli sponsor della coalizione (Francia e Gran Bretagna, in primis e al seguito Spagna, Italia, Usa e Canada) miravano né più né meno che a ridisegnare i rapporti di forza in una regione, quella del Maghreb, allora attraversata dalle rivolte delle primavere arabe e dunque da dinamiche esplosive, come sempre accade quando l’ordine delle cose non regge più, e per questo a rischio di sfuggire di mano al controllo politico-strategico dei Paesi occidentali, che hanno là solidi interessi di ogni tipo. E anche risvolti non tutti del tutto nobili e raccontabili.
La risoluzione 1973, una delle tre approvate dalle Nazione Unite nel periodo successivo all’intervento, autorizzando l’uso discrezionale della forza a protezione dei civili, costituisce un cambio di passo nella storia delle Nazioni Unite, poiché mette al centro la necessità di intervenire – anche facendo uso della forza – per ragioni umanitarie. Il che è oggi un punto focale di cui occuparsi, in un’epoca come la nostra, così segnata da massacri, eccidi, persecuzioni che coinvolgono popolazioni inermi e civili senza protezione. Ma, proprio alla luce della vicenda libica, quel cambio di passo non solo risulta pieno di rischi ed incognite ma svela una volta di più l’imbroglio che quasi sempre c’è dietro gli interventi militari che avvengono in luoghi di conflitto e che vengono camuffati in altro modo da quello che sono. Per essere più facilmente digeriti dall’opinione pubblica occidentale.
Se infatti non c’è un’autorità riconosciuta e legittimata a svolgere un forte ruolo terzo, in modo del tutto indipendente, e messa perciò in grado sì di ricorrere all’uso della forza, se necessario, per proteggere i civili ma in piena autonomia e con piena responsabilità delle operazioni, nulla che non sia diverso da una guerra per interessi di parte si può fare con l’intervento militare. Ci sono ovviamente le eccezioni, rare come perle nel deserto, che sono appunto solo eccezioni, nate in contesti specifici, che vanno analizzate per quello che sono e non sbandierate a conferma di altro. Come è il caso della missione italiana in Libano, di cui non si può che dire bene. Ma del tutto unica, eccezionale, inimitabile per il contesto in cui avvenne e che continua a essere tale e la rende ancora possibile.
Anche di questo la Libia ci parla. Di un disordine del mondo che moltiplica i problemi e di nuovo azzera la possibilità stessa che le Nazioni Unite acquistino quel ruolo di effettiva terzietà, di cui mai come oggi il mondo avrebbe bisogno. L’Italia potrebbe fare del rilancio dell’Onu un argomento dirimente della sua politica estera, uno spartiacque per il “che fare” di fronte ai disastri dell’epoca in cui viviamo. Ma non succede, siamo sempre sulla scia della “comunità internazionale”.
La Libia, per tutto quello di cui sopra che la rende così vicina all’Italia, mette in evidenza proprio un deficit di fondo italiano: il fatto che le classi dirigenti non hanno da decenni nessuna idea del rapporto dell’Italia col mondo, neanche con quelli più vicini e di diretto interesse storico-politico, come la Libia; non hanno una visione strategica della politica estera né una capacità di operare secondo una chiara scala di valori, riferimenti, interessi. Il nostro Paese è sempre al seguito degli altri.
Non c’è neanche una politica europea, occorre dire subito, né, allo stato delle cose, potrebbe esserci. Ogni Paese europeo, soprattutto quelli che contano, ne ha però una e si dà da fare per avere un ruolo politico e salvaguardare i proprio interessi nazionali. L’Italia neanche un’ombra di questo e la Libia lo dimostra in modo lampante.
E da qui invece che dovrebbe ripartire il nostro Paese. Almeno quanti e quante in Italia non si accontentano dell’andazzo delle cose e pensano che sia necessario costruire una politica dell’alternativa anche sul piano delle relazioni internazionali e del modo di intendere i rapporti tra i popoli. Dimensione sine qua non nel mondo globalizzato, che porta i segni pesanti del dominio finanziario e dell’egemonia delle armi.