Matteo Renzi trionfa sulle macerie del Paese
Lo fa nell’accondiscendenza servile delle grandi lobbies dell’informazione che accudiscono e coccolano il lato cortigiano del “costume degli italiani”. Lo fa portando a compimento il rovesciamento dell’anomalia italiana, da democrazia inclusiva e partecipativa a democrazia selettiva e notabilare.
L’attacco al sindacato è una potente riorganizzazione della struttura di comando, vieppiù indifferente alla mediazione sociale. L’assedio ai simboli non della casta ma del mondo del lavoro è il disinvolto congedo dal Novecento: una uscita a destra, senza se e senza ma. Ora la scacchiera si riduce, l’astensionismo è il rifiuto del gioco (quando il gioco viene percepito globalmente come gioco al massacro), lui vince comunque.
Nell’Emilia rossa, che fu il laboratorio del civismo e del buon amministrare, vince nel deserto del disincanto e della fuga dalla cosa pubblica. La cosa pubblica, appunto: che o si presenta come cosa immonda, oppure come cosa che è incapace di fermare la paura, il disagio, il gelo di nuove povertà.
Nella Calabria spolpata viva dal malaffare e dalla malapolitica, il “chi ha vinto” è ancora tutto da costruire: la domanda di cambiamento è forte, occorre immunizzarla dai virus del trasformismo e farla vivere come una alternativa efficace e dirompente alla ‘ndrangheta. In entrambe le regioni occorreranno risorse importanti per la messa in sicurezza del territorio, occorreranno molti cantieri e molta legalità, più velocità ma non meno controlli, ma soprattutto occorrerà uno strappo col passato, un “cambiare verso”, che è il contrario dello sviluppismo cementificatorio partorito dallo sblocca-Italia. Qui la rivoluzione ci serve ma non è quella generica della retorica renziana (velocizziamo, sburocratizziamo), è quella dello “stop” al consumo di suolo, si alla rigenerazione urbana, progettando insieme smart cities e agricoltura di qualità. Insomma il voto di una regione del Sud e di una del Nord hanno riconsegnato al centro sinistra una vittoria con molte incognite e molti problemi: se nel cuore della storia della democrazia partecipata vota solo una minoranza, allora siamo ad un passaggio epocale.
Cambia la qualità della democrazia. Nel disagio sociale e nel disfacimento del blocco berlusconiano cresce il ruspante Salvini.
Sel, reduce da qualche sfregio subìto e data per morta all’inizio dell’estate, ha un buon risultato, anche l’altra lista a sinistra prende un consenso importante. Non è poco, è il punto di ripartenza, e la partita vera, quella che vede muovere il conflitto sociale e la contestazione culturale, è appena cominciata.
A queste considerazioni occorre aggiungerne un’altra, direi dirimente: prendo ad esempio i due nuovi governi regionali che dovranno innanzitutto cimentarsi con il seguente problema: procedere nella gestione territoriale del Welfare a trovare un punto di equilibrio tra la crescita dirompente e drammatica di bisogni di protezione sociale e la drastica riduzione dei trasferimenti dello Stato alle Regioni delle relative risorse finanziarie. Si tratta di un equilibrio piuttosto complicato, assai simile alla quadratura del cerchio. E infine, i vittoriosi nuovi governanti potranno finalmente operare l’unico vero cambiamento epocale che gli compete: abolire il titolo di “Governatore”, visto che il loro ruolo sarà quello di spiegare a valle ciò che si deciderà alla corte del nuovo centralismo. Se questa descrizione senza fronzoli ha un senso o un qualche fondamento nella realtà, mi chiedo dove siano volati gli spiriti alati del pensiero liberale o del pensiero federalista. Me lo chiedo con dolore, perché vedo aperto e vorticoso il processo di smembramento dell’architettura democratica e persino del linguaggio della politica e anche di qualcosa che va oltre la politica “ politica” ma che allude alla tavola dei valori. In questo caso è come il compimento della parabola berlusconiana che inglobava la politica nel linguaggio della pubblicità. Insomma non vi pare strano vivere in un Paese le cui èlites sui propri giornali per vent’anni ci seducono con le prodezze del federalismo, il talismano invocato contro un centralismo tentacolare e corruttivo; poi di botto, da un giorno all’altro, senza alcuna spiegazione, scompare la parola federalismo, e torna invece in forma di corpo del reato, la parola “regionalismo”. Si dice che questa sia la conseguenza di “Mutande verdi” e altre goliardiche ruberie che, nello strazio della crisi economica, hanno indignato gli italiani.
Ma non appare paradossale che l’indignazione del popolo venga usata per privare il popolo di quei pochi poteri di cui dispone per farsi valere? Siccome i consiglieri regionali si compravano profumi e balocchi con i soldi dei contribuenti allora priviamo i cittadini che abitano l’Italia adriatica di dire se gradiscono o meno che il loro mare sia trasformato in una piattaforma energetica per le multinazionali del petrolio. Ho detto petrolio, l’eroe di un mondo finito, caro Matteo. Cari Matteo…
Ma qui il coraggio non è più una battutina da Barbara D’Urso.
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