Nato, la supplenza rischiosa.
I giornali sono pieni di grandi manovre militari, esercitazioni parabelliche, dimostrazioni di forza, con al centro la Nato e i Paesi europei del confine orientale, che è ormai carico di allarmanti suggestioni storico-simboliche – “noi” e il nemico storico – oltre che di immediati rischi politici. E, nel Galles, il vertice dell’Alleanza atlantica è impegnato a fare ufficialmente chiarezza su tattiche e strategie che intende adottare per “mettere in sicurezza” i Paesi che si sentono minacciati dalla vicenda russo/ucraina. Il timore dichiarato di questi Paesi è l’Ucraina faccia scuola e che da parte di Putin possano essere tenuti in caldo piani di destabilizzazione rispetto alle collocazioni europee degli ex satelliti di Mosca. I complessi problemi che stanno alla base della guerra civile in Ucraina vengono celati, come sempre succede, quando la parola passa alle armi (per loro natura le armi esigono la semplificazione), e il mantra torna a essere quello del nemico alle porte. Così la Nato, di nuovo protagonista, investe in sicurezza militare nelle ex Repubbliche baltiche, oltre che in Polonia e in Romania, anch’esse ex. Si parla di basi permanenti, di unità militari di pronto intervento, di un sistema di controllo a largo raggio, mentre i Paesi dell’Ue moltiplicano le sanzioni e le condanne con accenti risibili, a partire da quelli della nuova Alta rappresentante della Pesc, l’italiana Federica Mogherini, che dal politically correct basic del suo apprendistato politico passa seduta stante al distanziamento ostile verso Putin. Gli dei accecano quelli che vogliono perdere, insomma.
Dopo la lunga fase in cui si è affannata a definire il “nuovo concetto strategico” del suo operare, dopo il ruolo di “variante accessoria” rispetto all’interventismo diretto del Pentagono, in epoca bushiana, e dopo le varie missioni fuori contesto e dunque in contrasto col mandato costituivo del patto atlantico (Afghanistan soprattutto), che hanno però riconosciuto e consacrato all’organizzazione una funzione peculiarmente militare tout azimut, la Nato ritrova, con la vicenda Ucraina, l’ubi consistam dell’origine, cioè lo spazio europeo da difendere dai “rischi di vicinanza” col nemico dell’Est, come all’epoca della geopolitica di Yalta.
C’è, in questo precipitare della vicenda ucraina, il cinismo di Putin e c’è l’impotenza dell’Unione europea a diventare attore responsabile – in prima persona e in autonomia – di una trasformazione positiva dei suoi rapporti con quel lato del mondo, che è di così stretta contiguità e attinenza con i suoi interessi economici, energetici, politici e geopolitici. E di visione del mondo, se l’Ue volesse averne una, oltre all’ossessione dell’austerità. In quella faglia euroasiatica è passata infatti, nel bene e nel male, un’intensa storia di contiguità fra due mondi così lontani ma insieme così vicini, che la Guerra fredda aveva allontanato e che il dopo ’89 avrebbe potuto ravvicinare, non solo per ragioni energetiche e di mercato. Ma le cose rischiano di andare in direzione opposta.
L’Ucraina (45 milioni di abitanti per oltre 600 mila chilometri quadrati, cioè il doppio dell’Italia), è sull’orlo di una definiva balcanizzazione, perché nell’intreccio avvelenato di buone e pessime ragioni di una parte e dell’altra, dei filooccidentali come dei filo russi, tornano a galla avvelenate le mille contraddizioni di cui è intessuta la storia europea, e a cui né una parte né l’altra ha saputo dare fino ad oggi risposta.
Negli anni successivi alla caduta dell’impero sovietico e nella fase di crisi che per una fase non breve investì a tutti i livelli quel mondo, l’Europa avrebbe avuto una grande convenienza a ridiscutere su basi nuove e di nuova reciprocità i suoi rapporti con gli Stati Uniti, così come avrebbe dovuto misurarsi con spirito nuovo con i problemi che si andavano accumulando sul suo lato euroasiatico. Liberamente e senza preclusione. Si poteva allora. Sarebbe stato un segnale politico, di cui c’era bisogno, per evitare che la caduta di quel mondo alimentasse i due campi di tensione che invece si determinarono, alimentandosi vicendevolmente: da una parte la fuga, ovviamente legittima, delle varie ex repubbliche a farsi accogliere dall’Europa, dall’altra il risentimento, la frustrazione, la ricerca di rivalsa della Russia che stentava a essere “nuova”. Per altro stenta ancora e il tentativo di non farsi far fuori nel nuovo risiko mondiale, tentativo che a molti può non piacere, ha anch’esso qualche legittimità. Difficile negarlo, a meno di non essere di quelli che sostengono che la propria parte ha sempre ragione. Ontologicamente parlando.
Il problema come sempre, quando dichiariamo che qualcosa è legittimo, è capire come si operi per concretizzare quella legittimità. C’era per l’Europa, nel lungo post ’89, l’occasione a darsi un’autentica libertà di autonomi rapporti, amichevoli relazioni, accordi e scambi continuativi con la Russia. Per ragioni di buon vicinato, per interessi continentali, per obiettivi di sicurezza energetica. Come non capire il vantaggio del costruire una propria dimensione politico-istituzionale su un terreno fondamentale come la politica internazionale? Se non in quegli anni decisivi, quando? E quando programmare di rinegoziare patti e accordi con l’alleato atlantico, se non nel momento in cui le ragioni di un’esclusiva alleanza come quella siglata nel 1949, erano crollate col crollo del muro di Berlino? In un mondo che recava i segni evidenti di una tumultuosa trasformazione?
Invece l’Unione europea acconsentì a una Nato a supremazia statunitense, che ideò e concretizzò, attraverso procedure e pratiche di coinvolgimento ravvicinato, una strategia di proiezione verso Est tentando di inglobare tutti i Paesi dell’ex blocco sovietico con statuti di Paesi osservatori e poi partenariati variamente programmati nel tempo e irritando la Russia di Putin, considerandolo un Paese da tenere sotto sorveglianza di un sofisticato sistema di “scudo spaziale”. Accerchiamento, gridò Putin. E non aveva tutti i torti. La Nato si fece attore della transizione post crollo insomma e la sua strategia, in quel frangente, non poteva che essere di ispirazione statunitense. La Nato proiettata verso l’Est era considerata allora un potente grimaldello nelle mani degli Usa per espandere e rafforzare le sue postazioni verso l’Asia, per contenere la Russia, per meglio misurarsi in termini di rapporti di forza con le potenze emergenti del continente asiatico. Oltre che per controllare direttamente le vie di approvvigionamento di risorse strategiche di ogni tipo, che là ancora abbondano. E dunque per tenere in dipendenza anche lì Europa.
Ma le cose sembrano non essere cambiate, e Barack Obama, fautore dello smart power, che dovrebbe fondarsi, per essere davvero tale, sull’esercizio estremo della diplomatizzazione di tutti i conflitti e delle conferenze di pace senza tregua, sbarca a Tallin, – in Estonia – in una visita ufficiale che precede il vertice Nato e lo benedice, confermando l’impegno degli Usa a fianco dei Paesi Baltici. Come l’Estonia, anche la Lituania e la Lettonia sono membri dell’Alleanza Atlantica.
Nato per sempre e ovunque, insomma. Infatti anche Stati da sempre neutrali, come la Finlandia e la Svezia, che della neutralità avevano fatto un tratto distintivo della loro storia e della loro identità nazionale, sono sul punto di entrare nella Nato. Sicuramente la Finlandia nel 2015. Ma, sia pure con molti contrasti dell’opinione pubblica, anche per Stoccolma il cammino pare segnato.
Stando così le cose, l’Europa difficilmente potrà dotarsi di una propria politica estera e di conseguenti strategie di rapporto col mondo. La Politica estera e di sicurezza comune rimane una scommessa, nata, non per caso, nel 2004, soprattutto per volontà della Francia e della Germania, nel momento in cui i governi di questi due Paesi erano in forte contrasto con Bush per la guerra in Iraq.
Insomma la domanda del che fare invece dei giochi di guerra si impone in questo clima da guerra fredda e mentre va una partita che rischia di riportare i rapporti tra l’Europa e la Russia al livello del ghiaccio, con ovvie facili precipitazioni in scenari ancora più inquietanti degli attuali. Bisognerebbe seriamente averne paura e indurre a chiedere l’immediata convocazione di un summit di pace. Uno di quelli che non smetta di cercare una soluzione fino a che non se ne trovi una. E che ci siano tutti quelli con le mani in pasta, e tutti dotati della consapevolezza che le responsabilità sono di tutti e nessuno può vantare crediti di lealtà internazionale da sbandierare.
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DavideBusetto