Noi e la superclasse in orbita sopra di noi
Fosse vero quello che riferiscono alcuni giornali (e finora non si segnala alcuna smentita) questo articolo si esaurirebbe in quattro semplici righe, le seguenti. “Apprendiamo che Cottarelli, il demiurgo della spending review, percepisce 2.200 euro. No, non al mese, al giorno. Fanno sessantasei mila euro il mese, tranne febbraio il magro, naturalmente. Ora, poiché si tratta di soldi pubblici, faccia una bella cosa: dica che il primo della lista degli 85 mila della pubblica amministrazione è lui e sarà almeno credibile. L’esempio, ci hanno insegnato da piccoli, deve sempre venire dall’alto”.
Potremmo chiudere qui, in effetti. Cosa resta da dire, se non la nostra incredulità, quello stupore che ogni giorno ci coglie sgomenti, se non affranti, dinanzi alla sproporzione indicibile che corre e che cresce tra il corpo vivo del paese, le sue condizioni di impoverimento e di precarietà e il pianeta a parte che ruota attorno a queste miserie ad una distanza economicamente siderale. Su questo pianeta vive quella che sociologicamente viene definita una “superclasse”, in sostanza una aristocrazia ristretta che può detenere o comprare il sapere, manipolare le leve del potere e incamerare denaro per sé, tanto denaro.
Laggiù in basso, nella vasta e desolata terra, brulica un’esausta umanità fatta di masse passive escluse dal sapere e programmate a tavolino per il consumo, quel che basta almeno a riprodurre il propellente necessario per far stare bene in orbita la superclasse. Fossimo un blog grillesco urleremmo il nostro “tutti a casa” e chioseremmo con un “vaffanculo” convinti di aver chiuso in tal modo la questione. Ma la questione resta più che mai aperta e anzi peggiora, oppone all’urlo sdegnato e rancoroso un muto silenzio, quello del dominio ben saldo sulle macerie sociali che quella superclasse ha creato per potersi costituire come tale. E allora dobbiamo farcene una ragione, nel senso preciso di questa parola oggi così esposta alla quotidiana perdita di senso.
Cercare, tentare una spiegazione, e altro non può essere che quella della politica. La spiegazione che ci diamo noi sta nella messa a fuoco di due concetti. Quello di crisi e quello di classe dirigente. Sul concetto di crisi, quella spada acuminata dell’ideologia liberista che perseguita le nostre vite da più di sette anni ormai senza che se ne veda via d’uscita, sono state dette tante di quelle cose, sfornate tante di quelle analisi che non saremo certo noi a darne una pennellata di originalità. Salvo a dire una cosa semplice e inconfutabile: essa non nasce prima di tutto sul terreno dell’economia o della finanza.
Nasce su quello impalpabile ma discriminante della falsità e dell’inganno e prosegue il suo corso nel solco di presunti esperti, analisti, tecnici che si rivolgono a noi dall’alto di competenze e di ricette fondate sull’errore o peggio sulla menzogna. E sul concetto di classe dirigente, ormai del tutto priva di una qualche rappresentatività di compagine illuminata volta all’interesse generale e viceversa pelosamente curva, in Europa come in Italia, a coltivare il proprio egoistico tornaconto di superclasse.
Sarà in questi giorni nelle sale cinematografiche un film sulla figura di Enrico Berlinguer, visto che ricorre il trentesimo anniversario della sua scomparsa. Parla di lui, dell’Italia di quegli anni lontani e sfocati di prima Repubblica. Ma si può forse immaginare un ministro come, ad esempio, Ugo La Malfa che incarica il Cottarelli dell’epoca di sfoltire il settore pubblico per risparmiare sulla spesa fornendogli un emolumento mensile giornaliero di gran lunga superiore al salario massimo mensile del dipendente pubblico a cui chiedere rinunce e sacrifici in nome del risanamento dell’economia del Paese?
Pochi minuti fa l’amministratore delegato delle ferrovie italiane Mauro Moretti ci fa sapere che se si tagliano gli stipendi dei manager pubblici, lui e gli altri andranno all’estero, dato che prende 850 mila euro l’anno e il suo omologo tedesco tre volte di più. All’estero non potranno andarci quei cittadini che prendono i suoi treni di oggi, perché troppo cari, al massimo arrivano a Voghera e lì si fermano, con gli stipendi che corrono. Ma siamo sicuri che in Germania, in Austria, in Inghilterra prenderebbero uno come lui per affidargli le ferrovie? Cosa avrebbe detto uno come Pertini, ad esempio, delle affermazioni di questo paladino dei pendolari della nostra penisola? Nessuna nostalgia per quel tempo. Ma anche nessuna indulgenza verso l’ignavia, l’ipocrisia e, in definitiva, l’incompetenza, di una superclasse di questo nostro tempo di oggi che avendo causato la crisi si arroga ora il diritto di dirci cosa bisogna fare per risolverla. Vivendone al riparo su un altro pianeta e senza provare alcun senso di vergogna. Che, come si sa, è una virtù troppo rivoluzionaria per sfiorarli.