Nuove generazioni e antiche bandiere, l’antidoto contro la rassegnazione
Esiste da diversi anni una regola di proporzionalità inversa abbastanza mortificante: meno siamo efficaci e più dibattiamo. E poi un paradosso: più auspichiamo una sinistra utile, forte, unita e più questa rimane inutile, debolissima, frammentata.
Norma Rangeri e il manifesto provano opportunamente a suonare la sveglia e a ricordarci che così non è più possibile andare avanti.
Abbiamo bisogno di una svolta, di un vero shock che rimescoli tutto e tutti, che costringa a ripartire dai fondamentali. Da fondamentali così semplici da sembrare scontati, ma che negli ultimi venti anni si è riusciti, puntualmente, a negare e contraddire.
Il primo è ricordarsi che la sinistra è innanzitutto un sentimento di connessione tra la politica e la vita reale, le sue passioni, le sue imperfezioni, le sue sofferenze. È la connessione con le decine di migranti che ogni settimana sbarcano sulle nostre coste in preda alla fame e alla disperazione più nera e che, spesso, piangono i propri morti nelle traversate. È la connessione con le tragedie normali cui dà forma il rapporto Svimez sul Mezzogiorno: un quadro umiliante di un Sud senza più fabbriche, senza più lavoro, segnato dall’emigrazione e dalla natalità a tasso zero. È la connessione con l’indignazione di chi non accetta l’assoluzione degli stupratori della Fortezza da Basso, sancita da un Tribunale che pretende di giudicare la sessualità di una donna, la sua vita, i suoi desideri.
Il secondo fondamentale è darsi l’ambizione di esprimere un progetto, ben oltre una definizione in negativo rispetto alle politiche del governo. Si illude chi pensa che il problema sia Renzi e dunque che il nostro compito sia unire coloro che vi si contrappongono. Renzi è soltanto l’epilogo di una storia ventennale nel corso della quale la sinistra italiana, come e più di quella europea, ha ceduto sul terreno culturale, passo dopo passo, all’egemonia dell’avversario. Per questo motivo è essenziale ricostruire, per i prossimi vent’anni, una cultura politica in grado di confrontarsi con questa sfida e di esprimere un punto di vista autonomo sul mondo, sull’economia, sulla società; una forza capace di indicare un immaginario e di tradurlo in concetti e programmi di governo concreti, né anacronistici né indicibili.
Il terzo fondamentale ha a che fare – come ha ricordato su il manifesto Felice Roberto Pizzuti – con il perimetro europeo della nostra sfida, che è strettamente connesso al tema dei rapporti di forza e della massa critica. Da qui non si sfugge: non è possibile indicare scorciatoie nazionali per redivive piccole patrie né è credibile proporre la fuga dal terreno della politica, del conflitto e del governo come strumenti della trasformazione. La vicenda greca conferma e non smentisce la nostra tesi, perché un grande progetto riformatore dell’Europa e della sua architettura istituzionale ha bisogno di rapporti di forza che oggi non ci sono e che Tsipras, da solo, non può creare. Occorre allora tematizzare più e meglio il contenuto della via maestra, per ricostruire una Europa nuova, con il baricentro più basso, nel Mediterraneo, e lo sguardo verso i protagonisti del nuovo multipolarismo mondiale. Una nuova Europa in cui i trattati siano sottoposti al voto popolare, in cui il Parlamento abbia finalmente piene funzioni legislative e in cui la Banca Centrale – come avviene negli Stati uniti e in Giappone – sia messa nelle condizioni, strutturalmente, di disinnescare le speculazioni e di sostenere la crescita dei Paesi membri.
A quest’altezza però interviene una domanda che non possiamo più eludere: davvero pensiamo che ricostruire una forza politica che abbia il cuore e le gambe nella società, nelle pieghe del lavoro e nel non lavoro; che si occupi di riprendere, con le parole dell’oggi, il filo di un pensiero forte e di un discorso contro-egemonico valido per i prossimi decenni; e che si ingegni per immaginare e progettare un’Europa diversa, insieme a Tsipras e alle tante e giovani sinistre europee del Continente, sia compito dei gruppi dirigenti e delle formazioni politiche del secolo scorso? E, in particolare, di quella forma mentale reducista, minoritaria e autoreferenziale che ci ha insegnato ad allontanare la sinistra dalla sua gente, a pensare al piccolo cabotaggio, a smettere di studiare, a perdere?
La mia impressione è che debba essere compito di altre intelligenze, altri protagonismi, altre generazioni. Stando bene attenti a non compiere due errori: non inseguire giovanilismi senza contenuti (purché si cambi va tutto bene, anche peggiorare) e non dipingere – in una critica o autocritica spregiudicata – la classica notte in cui tutte le vacche sono nere. No, per fortuna non è così: esiste anche chi in questi anni ha tenuto aperta la partita del cambiamento e dell’innovazione, con curiosità e intelligenza, e chi, rompendo la gabbia del Pd, apre oggi una possibilità e una prospettiva.
Dall’incontro tra queste energie e il mondo che c’è fuori – e non dalla sommatoria indistinta di tutti i pezzi dispersi – potrà nascere nei prossimi mesi il nuovo partito. Se nascerà con queste premesse avrà già sconfitto il primo nemico: la rassegnazione che nasce dalla coazione a ripetere gli stessi errori. E allora potremmo davvero metterci in cammino.
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francesco