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Giovedì, 1 ottobre 2015

Ognuno di noi con la scomparsa di Ingrao perde qualcosa della propria vita. Ma ognuno di noi guadagna un’eredità di idee e di storie

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L’intervento di Nichi Vendola nella piazza di Lenola ai funerali di Pietro Ingrao

Dire di Pietro Ingrao, ora che ci misuriamo con la sua assenza, significa entrare dentro le pieghe di un secolo, il Novecento, che fu il grembo della società di massa, con le sue luminose utopie e le sue mostruose tenebre.

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Un secolo negletto e aborrito dai cantori di quell’eterno presente cheridicolizza il passato ma anche il futuro. Viviamo come in apnea: e ci manca l’aria, manca l’ossigeno, la politica e la vita sembrano consumarsinel chiacchiericcio di giornata e nella velocità di un tweet. Noi siamo a disagio e siamo a rischio proprio perché abbiamo subìto la banalizzazionee la manipolazione della memoria collettiva e della coscienza storica. Per capire dove siamo finiti e cosa siamo diventati occorre tornare a interrogare il Novecento, il secolo delle rivoluzioni e dei fascismi, della libertà come vertenza di popolo e dello sterminio come programma politico e organizzazione industriale.

Ingrao fu un figlio speciale di quel secolo di smisurate ambizioni e altrettanto smisurate tragedie. Com’è noto, fu l’arte, il gesto della creazione artistica, la parola che scolpisce versi, il racconto della macchina da presa, furono la letteratura e il cinema gli arnesi con cui il giovane Ingrao formò il proprio sguardo sul mondo. Fu ricerca della bellezza come ricerca di senso, come esplorazione dentro la trama dell’umano. Ma la storia bussò alla porta della sua vita e Pietro non fece finta di niente. La guerra e il fascismo non consentivano più di chiudersi nel giardino di casa a scrutare albe o tramonti. C’è una bellissima poesia di Neruda che si conclude così:

“Mi chiederete: perché la tua poesia/non ci parla del sogno, delle foglie, dei grandi vulcani del paese dove sei nato?/ venite a vedere il sangue per le strade/venite a vedere il sangue per le strade/ venite a vedere il sangue per le strade”.

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La lotta antifascista, la clandestinità, la Resistenza furono lo snodo della vita di una generazione che, all’indomani della Liberazione, Togliatti chiamò attorno a sé, a costruire e dirigere il “partito nuovo”, quel Pci capace di alfabetizzare masse di diseredati, di educare alla democrazia i braccianti del sud e gli operai del nord.

Ingrao di quella straordinaria comunità fu uno degli interpreti più originali, intellettuale raffinatissimo e leader carismatico, sempre capace di quella “connessione sentimentale” col popolo che non fu mai, come oggi accade, cedimento alla demagogia o urlo e bestemmia populista. Egli attraversò tutte le contraddizioni del dopoguerra, scontando la pesantezza di un mappamondo diviso in blocchi, talvolta non riuscendo a cogliere, come nella repressione di Budapest del 1956, la deriva che avrebbe trascinato le società dell’Est verso lo schianto. Su questo errore di valutazione la sua autocritica fu impietosa, sebbene negli anni Sessanta nella riflessione sua e dei compagni del Manifesto l’analisi del mondo oltre cortina e il giudizio sul socialismo reale costituissero il contenuto politico di ciò che taluni definiscono eresia. Certo Ingrao dell’undicesimo congresso è quello che esibisce il dissenso, il “non mi avete persuaso”, rompe la liturgia che vuole il partito conchiuso dentro una unità mistica. Ma il cuore del suo dissenso riguardava l’analisi del capitalismo italiano, della sua maturazione nel corpo dell’Italia spezzata dalla questione meridionale, della sua presunta arretratezza: nodi cruciali, di conoscenza di processi strutturali della società, della sua economia, della sua cultura profonda. Qui ci sono molti semi che sono germogliati, anche solo come “etica del dubbio” da contrapporre all’ingorgo di integralismi in cui siamo spesso imprigionati.

Si è parlato spesso di Ingrao come di un utopista, di un sognatore, appunto di un poeta: e l’atto del poetare tornò più tardi nella sua vita, come un continuo ritorno al punto primigenio della contempazione, della distillazione di senso, della significazione di se e degli altri oltre ogni conformismo.

Ma la figura dell’acchiappanuvole, con cui Pietro ha giocato, da parte dei suoi critici serviva a svuotare di forza una parabola di vita pubblica che non si contenta di chiudersi nel qui e ora, nel dettaglio, nella battuta. Le nuvole sono anche le superstizioni, le forme che inibiscono una limpida visione del cielo, un filtro per l’immaginario. Ingrao non fuggiva dalla politica, ma piegava la politica alle domande della nuda vita, la rimetteva sempre con i piedi nel fango della polis, faccia a faccia con la concretezza materiale della vita di chi ha poco o niente, di chi sa poco o niente.

Non a caso la sua riflessione sulla dimensione istituzionale e sulla struttura dello Stato rappresenterà uno dei punti più densi e coraggiosi di riflessione sulla crisi della politica e della democrazia. E da Presidente della Camera, in uno dei momenti più straordinari di quegli anni settanta, andrà nelle acciaierie di Terni, difronte agli operai metalmeccanici, a ri-collocare il senso della sua funzione e la radice morale della Repubblica.

Noi lo abbiamo amato perché incarnava in modo speciale le virtù del Pci: il vincolo di popolo, l’autorevolezza e il fascino e persino l’eleganza della politica, la cognizione del cammino compiuto, la piena coscienza dello spartiacque rappresentato da alcuni nomi che segnano il calendario della storia: Auschwitz e Hiroshima, innanzitutto.

Ma lo abbiamo amato perché la sua ricerca appariva sempre mobile e proiettata in avanti: ad ascoltare la voce delle donne, quella voce che il codice patriarcale del linguaggio sia pubblico che privato aveva ridotto a brusio e spesso piegato al silenzio; a vedere nella profezia ecologica il paradigma necessario a ripensare lo sviluppo, fino a interrogarsi con parole inedite sul “vivente non umano” e la sua dignità.

Lo abbiamo amato perché era curioso, inclusivo, vitale, estraneo a quella fiera della vanità che oggi sembra risucchiare nei suoi show l’intera vita pubblica.

Lo abbiamo amato perché sapeva accogliere la diversità del mondo e degli esseri umani come una ricchezza immensa, e nessun pragmatismo della politica poteva mai distrarlo dal compito fondamentale della politica: rompere muri e barriere, liberare umanità, umanizzare la vita.

La abbiamo amato per la sua passione scevra da calcoli o da furbizie, per la forza con cui accoglieva la debolezza, per il coraggio di nominare la sconfitta, per l’inesausta ricerca di bellezza: la bellezza dell’abbraccio, del riconoscerci negli altri e in un comune destino.

Ognuno di noi con la scomparsa di Ingrao perde qualcosa della propria vita. Ma ognuno di noi guadagna un’eredità di idee, di storie, di parole che non sono bolle di sapone ma sono carne e sangue della storia che si compie. Non dissiperemo questa eredità. Non smetteremo mai di amare il nostro Pietro Ingrao.

Nella foto una immagina della piazza di Lenola. Fonte Il Manifesto